Ansia e caffè

Quanti anni avevo fatto a meno del caffè.

Soffrivo di stati d’ansia e la prima cosa che mi aveva suggerito il dottore era quella di togliere la caffeina dalla mia dieta.

“Il caffè ti aumenta i battiti del cuore e ti provoca nervosismo” – aveva sentenziato durante una delle tante visite in cui cercavo una soluzione patologica al mio stato.

A pensare che da piccola, spessissimo, con mio fratello, mangiavano per merenda caffè in polvere mischiato con lo zucchero. Intere ciotole. La polvere si insinuava tra i denti e rimaneva un po’ sulla lingua prima di mischiarsi con la saliva per poi si espandersi in tutta la bocca. L’amaro del caffè si perdeva dentro il dolce dello zucchero e viceversa a secondo di quanto un ingrediente prevalesse sull’altro, poi l’aroma saliva su all’interno del naso.

Ogni volta che mi pigliava la voglia di caffè mi rifugiavo in quel ricordo e, chiudendo gli occhi aspiravo tutta l’aria possibile impregnata nella rievocazione di quella calda fragranza.

“Il caffè rianima, prendine un poco” – “il caffè aiuta la digestione…”, ma come fai a fare a meno del caffè?”, mille di queste frasi, nell’ultimo anno, le avevo sentite ripetere e ripetere, accompagnate da risolini beffardi e da certezze discutibili.

 

Quando si avvicinava la fine di un pranzo e si liberava la tavola per far posto alle tazzine e alla moka fumante, allora, io, incominciavo a prepararmi un discorso, intelligente e plausibile che giustificasse quella mia privazione a godere del caffè. La mia ansia si espandeva insieme all’aroma, la prima dentro di me, la seconda nell’aria.

Si sa la gente prova gusto ad indagare e giudicare, con quella facilità di chi crede di fare un’opera buona. Che ne sanno loro della mia ansia? delle mie paure? Delle mie rinunce e della mia voglia di caffè?

Così, dietro consiglio medico e di qualche ricerca su internet, avevo sostituito il caffè con il the.

Ma, contenendo teina, stimolatore anch‘essa dell’agitazione, il the aveva bonariamente ceduto il posto a litri e litri e litri di camomilla che oltre a colorare le mie urine di un giallo intenso, a lungo andare avevano reso anche la mia pelle dello stesso colore della pipì.

Setacciata in bustine monodose già pronte e comode o, per seguire tutto un percorso preparatorio al benessere, preparata da me stessa portando in ebollizione quelle tenere margheritine per concentrarne l’efficacia. Il liquido giallo riposava nella tisaniera al centro della tavola, pronta a combattere, come un soldato di trincea, ogni minimo stato di agitazione. Ma solo a guardarla, aumentava in me lo stato d’inquietudine.

Passavo del tempo a studiare i volti dei miei predecessori per scorgerne un minimo d’inquietudine e leggevo trattati sull’ansia: dai sintomi alle cure. Leggevo Freud, Jung ecc. Eppure al di là della psicologia, sarebbero bastate poche miracolose gocce a rimettere a posto ogni cosa! Le tenevo chiuse nella dispensa, ogni tanto le tiravo fuori e le guardavo accendendo con loro un dialogo silenzioso e speranzoso. Ma non ho mai aperto la boccettina, come non ho mai battuto sulla tastiera del telefono nessun numero corrispondente ad uno psicologo.

Masochismo o coraggio? Ancora ripensandoci me lo chiedo….

Alla mia ansia davo il buongiorno la mattina, come una persona e la buonanotte la sera, quando entrambe esauste ci separavamo per dedicarci al riposo.

Ma non ero assolutamente una nevrotica.

Tutto si consumava in silenzio dentro di me.

Ormai ero diventata così brava a gestire la mia apprensione, che nessuno si accorgeva della lotta che avveniva in quel campo che era il mio petto, dove io e l’ansia schieravamo le nostre armi. Al cuore che batteva troppo in fretta io schieravo pensieri di prati in fiore. Alla sudorazione eccessiva mi dicevo che mi ero vestita troppo pesante. Alla mancanza di respiro, mi accusavo di aver mangiato qualcosa che mi ha aveva fatto male. Alle gambe prive di forza e formicolanti ……e così via.

Una partita a scacchi dove le mosse erano sempre più astute da entrambe le parti.

Tutto era iniziato una mattina di tanti, tanti anni fa, quando alla fermata del tram che mi portava al giornale ebbi un capogiro.

Cos’è? mi ero chiesta. La paura di non saperlo gestire prese il sopravvento ed uno stato di agitazione mi assalì.

L’azione da compiere in quel momento, fu quella di ritornare il più presto possibile a casa.

E varcando la soglia del mio appartamento mi invase un solo pensiero: sono al sicuro!

Mi preparai un caffè e mi arrotolai sul mio vecchio divano; le mani serrate sulla tazza fumante. Iniziai una conversazione silenziosa e segreta con me stessa. Pensavo e ripesavo a quello strano capogiro che mi aveva tanto agitata ed in fondo mi rassicuravo pensando “una vertigine capita a tutti, no?” specie a noi donne che con il periodo premestruale, durante e dopo, siamo facilmente suscettibili a questi episodi.

Ma più mi davo spiegazioni più rimanevo agitata, perplessa…inquieta.

Conoscendomi e guardandomi dietro, la mia vita, fatta di colpi di testa e scelte un po’ fuori dal comune, e quella sensazione di paura mista ad angoscia, non mi si cuciva proprio addosso.

Nei giorni a venire ritornai a parlarne con il mio medico, che mi suggerì qualche giorno di riposo e di svago e mi prescrisse qualche analisi. Persino un test di gravidanza!

A casa non riuscivo a concentrarmi in niente. Interrompevo qualsiasi cosa facessi, nulla mi distraeva e m’incantavo a guardare il gatto o a fissare un punto impreciso oltre la finestra.

Mi studiavo. Non pensavo o lo facevo troppo. Tutto o nulla attraversava la mia mente.

Sentivo attraverso il corpo. Ogni cosa che passava dalla pelle, di freddo, di caldo, di morbido, di ruvido attivava un preciso pensiero. E tutto ritornava a quel capogiro che ormai ossessionava la mia mente.

E lo faceva ancora di più dopo che dagli esiti degli esami risultai sana come un pesce e non gravida.

Intanto compravo confezioni di caffè che sniffavo solamente per la paura che solo un sorso di quel liquido potesse compromettere ancora di più le mie giornate.

Capogiro e caffè. Il primo senza risposte, il secondo desiderabile ogni giorno di più

Ben presto mi circondai di contenitori di latta che contenevano caffè di tutti i tipi e che utilizzavo per gli usi più svariati, da sopramobile a portaoggetti.

Anche in redazione, i contenitori di caffè ornavano la mia scrivania. Il contenuto lo regalavo, come i miei falsi sorrisi; che elargivo a chiunque.

Cosa mi stava succedendo? Mi stavo ammalando? E di cosa? Avevo paura a dirmi che forse stavo diventando pazza.

Al contrario del mio stato, agitato e nebuloso, mai come in quel periodo riuscivo a scrivere pagine e pagine, le parole mi nascevano spontanee, diventando periodi, e poi storie. Mi rilassavo facendomi cullare dai racconti della gente che intervistavo. Li ascoltavo con nuove orecchie, ne capivo gli stati d’animo, sentivo i loro bisogni. Vedevo i loro occhi e guardavo le loro mani, perché tante volte parlavano al posto della loro bocca. Un’empatia dilagante mi legava a loro.

Ah se avessi avuto come allegato un caffè, pensavo ogni volta che allungavo il braccio per prendere la tazza, invece di quell’intruglio di erbe morte e ingiallite di melissa, camomilla, passiflora, tiglio, biancospino………che facevano a gara per inaridirmi, conservandomi in un sacchetto di carta con su la scritta “anima appassita”.

La sera prima di dormire mi passava davanti gli occhi il viso di Sergio.

Durante il giorno il suo volto mi appariva come una foto sbiadita dove i contorni non sono più netti, come quando dopo averla fatta ristampare più volte, il risultato non è più naturale perché i colori sono alterati.

La mia pelle non gradiva più le carezze di Sergio. La mia bocca si scostava velocemente dalla sua. Le nostre uscite si diradavano coperte dalle scuse più banali, i nostri corpi si allontanavano, le nostre menti erano già altrove.

Cosa aveva attivato quel capogiro? Mille paure, mille dubbi, mille perché torturavano continuamente la mia mente e il mio cuore. E le risposte non arrivavano, giravano attorno alle domande come deltaplani in cerca di uno spiazzo dove atterrare.

La mia lunga storia con Sergio si consumò come una candela, che all’inizio emana una luce forte e brillante, ma man mano che la fiammella diventa più piccola e fioca va perdendo la sua forma e si spegne, abituando lentamente gli occhi al buio, senza nessun dolore.

Così il suo odore svanì al primo ricambio d’aria, sia dalle mie lenzuola che dalle mie narici e, con lui sparì anche quello del caffè che ancora preparavo per lui.

Quel capogiro si era trasformato in una grande forbice, autonoma, che troncava anche dove non volevo, non solo nelle mie abitudini alimentari, ma dava aria al mio cuore eliminando quegli affetti senza vita. Visto che l’amicizia, come recita Wikipedia, è un tipo di legame sociale accompagnato da un sentimento di affetto vivo e reciproco tra due o più persone, caratterizzato da una rilevante carica emotiva e fondante la vita sociale dei due (o più) individui. Percepito come un rapporto alla pari, basato sul rispetto, la stima, e la disponibilità reciproca.

Non riscontrando più nessuna di queste caratteristiche, diedi libertà alla forbice di tagliare, anche se per ogni ramo e foglia che cadeva giù si rafforzava di più la mia tristezza.

Aprii la mia rubrica telefonica e sul nome che scorreva sul display mi apprestai ad avviare la procedura di “delete”. Inspiravo ed espiravo profondamente boccate di nicotina, mandando giù enormi sorsi di camomilla, ripercorrendo la lunga o breve strada percorsa insieme su ogni nome che appariva.

Con Laura, per esempio, ci eravamo conosciute sui banchi di scuola. Insieme avevamo affrontato quella bestia dell’adolescenza. Sentivamo un’incessante bisogno di comunicare. Sempre.

Poi, forse per quelle tante parole dette, tra di noi era calato un grande silenzio; e quando le nostre voci non potevano raggiungerci lo facevano le parole scritte che riempivano pagine e pagine di

lettere che ci spedivamo anche dopo una brevissima separazione. I primi amori, le confidenze intime, le bugie più disparate inventate per coprirci a vicenda con i genitori. I pomeriggi per le vie del centro o chiuse dentro i camerini dei negozi a provare tutti quei vestiti che mai avremmo potuto comprare. La spensieratezza che è intrisa in quella età.

Poi con il suo matrimonio tutto cambiò. E lei pian piano si trasformò in quella Penelope che per anni ancora aspetterà sulla spiaggia dei suoi ricordi il ritorno di quel fidanzato che aveva sposato, sostituendo alla tela pavimenti da sgrassare.

“E io restavo senza parola, perché capivo che la cucina era il solo luogo di tutta la casa in cui quella donna veramente vivesse, e il resto, le stanze adorne e continuamente spazzolate e incerate erano una specie di opera d’arte in cui lei riversava tutti i suoi sogni di bellezza, e per coltivare la perfezione di quelle stanze si condannava a non viverci, a non entrarci mai come padrona ma solo come donna di fatica, e il resto della giornata a passarlo nell’unto e nella polvere”.

Ogni volta che leggevo questo libro di Calvino si materializzava davanti a me la sua figura.

Cosa si perde con gli anni che passano. Le risa, l’allegria, la poesia. Accarezzai il suo volto sorridente immortalato su una fotografia distratta sul cellulare. Lei mi aveva già eliminato dalla sua vita forse senza accorgersene, quindi con tutta la forza pigiai sulla tastiera del mio Iphone “delete”? yes!!

Capii che era arrivato quel tempo in cui ti devi liberare delle zavorre sentimentali, come fai con certi abiti che stanno appesi per anni nell’armadio, occupando solo spazio inutile tra i nuovi. Li sposti da destra a sinistra, da uno ripiano all’altro, nuovamente da sinistra a destra, aspettando inutilmente di essere indossati. Ma sai bene che non li indosserai mai più! Vuoi perché con lo scorrere del tempo, oltre a rendere liso il tessuto, è cambiato lo stile, vuoi perché il tuo corpo, e soprattutto il tuo modo di vederti, mai ritorneranno a vedere la luce di quella che eri in

precedenza….mai è più terapeutico di un cambio di stagione; prendi il coraggio a due mani di fare pulizia dentro e fuori di te e l’atto di riempire i borsoni ti libera passando il testimone ad altri in segno purificatore.

Così entravo ed uscivo dalla
mia rubrica telefonica, durante la sera, e dalle vite delle persone che intervistavo, durante il giorno. Mentre i primi lasciavano solo un pallido ricordo gli altri si trasformavano in vitamine per lo stato che stavo vivendo.

Mi liberai, violentandomi, di quei tralci di vita passata, trasformando in ricordi quel dolore che non può più farti male, consapevole da molto tempo, ormai, che io ero solo storia nella loro vita.

Elimina Lucio. Perso nella sua mania di protagonismo, infedele persino con se stesso. Non riusciva a fare pace con i propri errori e indossava ormai la maschera dell’orgoglio che distorce ogni verità.

Elimina Marta, ormai la sua testa come lo struzzo era così interrata da non vedere più neanche se stessa; figurati me!

Elimina Sandra che trovava sempre una buona ragione per caricare gli altri di colpe per evitarsi così ogni cammino di discolpa.

Eliminare? Si. Eliminare? Si…”delete”….!

Zic Zac, Zic Zac. Amori disarmati e senza sbocchi. Relazioni ipocrite e senza valori.

Così una mattina mi ritrovai seduta su un treno che attraversava città, paesi, campagne. Lasciava indietro montagne e si apriva verso pianure.

Mi lasciai cullare dal rumore delle rotaie sui binari fino ad addormentarmi. Mi sognai bambina.

Una mano leggera mi sfiorò la spalla e una voce gentile mi disse che eravamo arrivati.

Scesi e un profumo di gelsomino mi invase dentro e fuori cancellando ogni odore che portavo.

Mi sedetti ad un tavolo del piccolo bar di fronte la stazione ed un piccolo uomo tozzo mi servì un tazza fumante di caffè.

Non è mio risposi con un gesto di diniego. – Lo beva finché è caldo, altrimenti perde il suo aroma invitandomi ad avvicinare la tazza, con il gesto tipico, del pollice e dell’indice uniti e portati vicini alla bocca di chi vuole offrirti un caffè. E sparì dentro il bar.

Non so quanto stetti a guardare la tazza, a sentirne il calore pungente tra le mani ad inebriarmi della sua fragranza. Poi chiusi gli occhi e bevvi. Il liquido, scuro…forte..intenso… percorse la strada conosciuta, accarezzando le papille raggiunse la gola; lì sprigionò tutta la sua forza che mi diede un nuovo vigore.

Raggiunsi, a grandi falcate casa. Spalancai le finestre, tirai via le lenzuola polverose che coprivano il passato e misi sul fuoco la grande moka che concludeva tutti i pranzi della mia famiglia.

Il fischio del caffé coprì ogni silenzio, dando vita alla solitudine densa di presenze invisibili agli occhi ma reali al cuore. Tutto mormorava, il letto, il tavolo le mura. Il silenzio si affollava di visi, di emozioni, ma anche di tremori e di paure.

Quanto sono stata in quella culla di dolore-tenerezza-rinascita. Non ricordo e non voglio ricordare.

Le cose accadono senza che noi le vogliamo ed è inutile sottrarsi. A volte scegliamo una via, ma un intoppo, un incidente, un sospetto cambiano la direzione.

Quel capogiro mi aveva trasformata in un minatore e la miniera era la mia vita. Ero scesa nelle profondità della mia esistenza a piccoli passi cercando di portare luce in un cunicolo rimasto oscuro. La paura era guardarsi dentro e non trovare nulla.

Dentro di me invece c’era tanto. Molto.

Voglio camminare e lasciare le mie impronte, voglio essere presente e non stordita.

Accarezzo i quaderni, traboccanti di parole, di paure, di speranze, di quel periodo di sofferenza ma senza aprirli. Forse un giorno li brucerò o li lascerò a memoria dei miei figli.

Forse non farò cose importanti, ma la vita è fatta anche di piccoli cose. Forse domani morirò, o forse vedrò ancora tanti tramonti, ma tutte le cose che farò apparterranno alla mia storia ed anche in minima parte rivivranno nella storia di chi mi ha incontrata. E’ proprio questa l’eternità?

Penso, mentre seduta davanti la finestra guardo fuori la gente comune e sorseggio il mio caffè. Il mio ritrovato caffè!

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