Il Vento nelle “Voci del feudo” di Alessio di Giovanni

Tra le tante voci del feudo, nell’opera omonima di Alessio Di Giovanni,  spicca per la sua intensa presenza il Vento, che il poeta ciancianese ha saputo cantare come nessuno prima.


   Il vento è una delle creature che abitano il variegato mondo del feudo e della zolfara; è il narratore che informa tutti di tutto e prende parte attiva allo svolgersi degli eventi.   Una presenza non invisibile o metafisica, ingombrante o fastidiosa, come siamo abituati a considerare l’elemento atmosferico, ma palpabile, concreta, che degli uomini sembra provare sentimenti e risentimenti. Ce ne accorgiamo da come agisce, da come ci ruba i sospiri e li porta lontano, da come a volte ci accarezza librandosi leggiero o da come ci sferza, così come farebbe un amico che abbiamo messo a parte dei nostri pensieri segreti.
   Non è l’osservatore sconosciuto di cui s’ignora la provenienza e la meta; non ha nulla di mitico anche se, brontolando, sembra parlare una lingua sconosciuta, forse quella di suo padre Eolo; ed è un infaticabile viaggiatore, la cui esuberanza nessuno mai è riuscito ad imbrigliare.
   La raccolta delle Voci del feudo si apre con un grande affresco idilliaco, con un componimento intitolato Ni la massaria di lu Mavaru, che lo stesso Giovanni Verga definì un vero gioiello.
   Sul vespro le vacche pascolano, lente e pazienti, naschiannu. Il crepuscolo è dolce e l’aria incantata, nun cc’è nuddu di tunnu ni lu feu; in un silenzio quasi irreale, al tinnulo e cadenzato suono delle campane degli animali risponde un alito di vento, quasi un bisbiglio per non turbare la quiete campestre; ‘na vava di ventu ca trasporta per quelle terre brulle, gerbe dice il Di Giovanni, un forte odore di nepitella.
   Lo stesso vento, che fa tutt’uno col paesaggio, dà una mano all’uomo invitandolo al lavoro perché porta via li nuvuli sacculari, trascinandole per il muso ( li nuvuli d’argentu /  trascina pi lu mussu).
   Non sempre si comporta da gentiluomo e lo sappiamo bene; talvolta provoca danni alleandosi con altri agenti atmosferici; ma anche lui deve segnare il passo. A tempu di simenza è opportuno che si dia una calmata per riprendere magari più ‘ncifariatu di prima e provocare scantu di maluttempu nell’animo umano.                                                                         (cfr. anche A tempu di semenza)
   Comincia a piovere, lu ventu si scatena e sbattulìa li porti; / porti e vitrati  facennu arrivulari, mentre gli alberi si danno mazzati. Non c’è pietà. In giornate di freddo ammazzacristiani, che rendono ancora più cruda la miseria, a voler andare in giro s’incontra solo il vento, che ti rimprovera chiedendo conto della tua esistenza: ancora asisti, ‘nfami / ni stu munnu? E sembra, accordandosi con le campane, di suonare a morte un lugubre ritornello: Va a lu to palazzu, / va mancia terra! // E chisti su’ l’asequii di li poviri. In questi casi, il vento, brutto come la fame, non può che essere freddo, venire da maestro, a portare burrasche non solo fisiche.              
                                                                            (cfr. Scantu di maluttempu e La fava)
   Personaggio strano, meraviglioso e imprevedibile, ora grida forte, ora lento; ora lento sospira e s’azzuffa con le nuvole del cielo. E’ uno zuzzurellone che passa chianciulinu tra le viti, dondola le spighe e si jetta a mari / cci fa fari li vozza e, comu stanca, / lu lassa a picca a picca arripusari.   Alla calura, suona la sampognetta ed increspa l’acqua lucenti di ‘n’abbrivatura.
                                                                                                       (cfr. Ventu d’estati)
   Che tipo! Stanco ormai, si concede – come tutti i bambini – una pausa in una cappelletta, incutendo timore ad una lampada votiva, che lu senti e trema. Ma è solo un attimo perché subito riprende la sua corsa gioiosa e spensieratamente infantile trastullando e refrigerando i mietitori, inseguendo le allodole per la campìa e mentre corre prende fiato e presta voce alle piante. Dà, quindi, una spazzolata alle erbe, trasporta lontano il cigolio dei carri e ingaggia un duello  con i fili del telegrafo.
   Insomma, a stu munnu, lodatu sia lu ventu,/ lodata e biniditta la so vuci!
Quando sente ciavuru d’abbruscu, come in un agguato mafioso, trattiene pure lui il fiato; in siciliano nun pìpita. (Cfr Minnitta). Ma è pronto a commuoversi dinanzi alla pietà di tre orfanelli; singhiozza e smette di ‘ncuitari lu licchettu; dinanzi alle zolfare passa ‘ntussicatu, perché gli bruciano i polmoni e, sentendo il lamento straziante che proviene dalle gallerie, pure abituato a canti arditi, non sopporta e si va ‘ntana: raccapricciante lo spettacolo regressivo dello sfruttamento  perpetrato in miniera!           (Minnitta, L’urfaneddi, Lu cantu di li surfari e La surfara di notti)
   E’ un amico, dicevamo, che dopo essersi sfogato, aver sottomesso tutto il mondo (Ni l’arii di Majenza) e aver voluto punirci con la sua assenza, facendosi perciò desiderare, sa librarsi a portare sollievo, possibilità di riprendere il lavoro benedetto e speranza (Lu ventu vinni! – Ventu a cannolu e bona la stasciuni) ai braccianti, che lo avevano invocato.
   Da perfetto ecologista non ama la caccia e fa perdere tempo agli amanti di questo pseudosport (cfr Lu ventu e lu cacciatori) che attorno a sé vedono arvuli arramazzati.
   Sensibile com’è (Sonnu maluncunusu), a settembre ad ogni tantu vintìa e quell’aria frizzantina risveglia, trasportando profumo d’acacia, tanti e tanti rigordi e fa sbuttari a chianciri quasi senza motivo, infondendo un senso di pace  sconsolata , preannunciando tristezza e malinconia; quando riprende a ronfare forte (cfr E fra’ Grigoli torna) a primavera  s’insinua dintra lu pirtusu di la toppa e muove chianu chianu li cimiddi / di l’arvuli e li pampini, che sospirano come ciancianedda nica e spazza via il fogliame spingendolo in alto (cfr. La primavera e fra’ Grigoli).
   Potente la descrizione delle gesta del nostro eroe ne Lu ventu ni lu romitoriu, dove  appare scatinatu e sbuffa forte trasportando da un capo all’altro dell’universo i nembi, senza stancarisi un minutu; quindi cambia tono e suona p’un pezzu lu tammuru tra celle e corridoi dell’eremo.
   Riprende a soffiare e fa cazzicatummuli supra li canala, scivola nei camini e stride tra la legna ammonticchiata; dà spallate a porte e finestre e finalmente canta la ninna nanna a un fraticello che dorme nel suo jazzu.
    Forse anche per lui è giunto il momento di riposare!
   Perché simile presenza nelle Voci del feudo? 
   Forse il poeta ciancianese se nte il bisogno di lodare a voce alta il Creatore, così grande nella sua potenza, e adopera per descrivere quest’ “impronta” tutti li culura di lu munnu; ma non lo chiama mai fratello, come avrebbe fatto il Poverello d’Assisi. Il francescano Alessio mai avrebbe osato levarsi a tanto!
   Una domanda sorge spontanea: com’è possibile scrivere tanto di una presenza impalpabile e in modo così mirabile? E’ possibile se si hanno gli strumenti e se si sa prestare orecchio alle voci di natura. Di Giovanni aveva entrambe le facoltà e una grande vena poetica e pittorica.
   Nessun altro scrittore dopo Dickens – sostiene G. Ragusa Moleti nella Prefazione all’edizione del 1938 di Voci – ha saputo mai scrivere così del vento, animandolo e dandogli parola, sia che si tratti  di vento di scirocco o tramontana, di provenza o di libeccio, che culli le biade in fiore e accarezzi le erbe o tormenti il mondo investendolo da ogni parte.  Per V. Arnone il Di Giovanni ama parlarne così tanto da sentirlo come una dimensione morale dell’uomo isolato nel latifondo, come personificazione ora delle paure invernali, ora delle dolcezze estive.
   In ogni caso, lo ha descritto così bene, con espressioni così vigorose e secche da lasciare stupefatti, dando consistenza  umana e facendo agire come persona un personaggio così inusuale.. 
   Il vento è l’elemento collettore di tutte le voci del feudo che in lui si sommano e trovano il portavoce.    E’ la stessa voce del Poeta che osserva e giudica, che ha voglia di ridere e piangere, di urlare e accarezzare, di gratificare gli uomini per la santità del focolare e la dignità del lavoro e fustigare malcostume e maldicenze, incredulo dinanzi a insipienza, malefatte e abbrutimento.
   A lui Di Giovanni sembra affidare le sue poesie, e perciò la sua voce, perché le diffonda con il suo francescano sogno e l’intima lode a Dio, signore e padrone di tutte le cose, perché ne magnifichi, nella sua corsa che non conosce ostacoli, da cifaru o da vava, la potenza creativa.
                                                                                                    Eugenio Giannone

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