Stenti , privazioni, sofferenze, soprusi, sacrifici segnano in maniera indelebile l’esistenza di Pasquale Alba, nato a Cattolica Eraclea nel 1871 e morto a Cianciana, dove aveva esercitato parecchi mestieri, nel 1945, un figlio del popolo che, costantemente preso dai mille problemi quotidiani, “giusta nun potti compiri la scrittura”. E qui sta la nota stonata, che nel caso specifico si trasforma in merito: Pasquale Alba era pressoché analfabeta; le poesie le ricordava a memoria o se le faceva trascrivere e sarebbero andate disperse se, circa quarant’anni fa, non le avessi raccolto dalla viva voce del figlio Angelo, che ancora le ricordava, in un volumetto ciclostilato, che oggi è un cimelio. Nel 1986 L. Gurreri lo antologizzava nella raccolta “Poeti popolari di Cattolica Eraclea”, finanziata da quel Comune.
Grande è stata la stima, il prestigio, di cui l’Alba ha goduto in vita. Alessio Di Giovanni premise ad epigrafe di “Ni la dispensa di la surfara” la sua “Poviri surfarara sfurtunati” e nel dramma “Gabrieli, lu carusu”, allorché accenna alla vena poetica dei minatori ciancianesi, fa esplicito riferimento a “Peppi d’Arba”, che altri non è se non il Nostro, che a Cianciana, dov’era venuto a lavorare in miniera, aveva trovato terreno fertilissimo per dare libero sfogo al suo estro innato.
Il paese, contrariamente a quanto avviene oggi, era in forte espansione socio-economica; da poco erano state aperte le zolfare, che, al di là dello sfruttamento degli addetti, garantivano un salario sicuro che si riverberava su tutta l’economia cittadina e aveva richiamato dai centri vicini un gran nugolo di persone – tra cui l’Alba – al punto che in meno di 30 anni la popolazione raddoppiò, superando i 6.000 abitanti. L’incontro di tanta gente è sempre positivo perché favorisce lo scambio di idee e di esperienze che è sinonimo di crescita. I “burgisi” fanno studiare i figli, alcuni dei quali diventano docenti universitari, e la vita politica è vivace, grazie alla presenza di alcuni repubblicani e garibaldini convinti. Nel 1861 erano state istituite le scuole elementari maschili, cui nel ’63 seguì una sezione serale e nel ’70 quella femminile. Tra il 1863 e il 1870 era stata istituita una stazione dei Reali Carabinieri, una delegazione di P.S. e il telegrafo elettrico; nei primi anni ’70 era nata una società di mutuo soccorso. Nei primissimi anni del ‘900 arrivò l’acqua del Voltano e già tutta la viabilità interna era stata sistemata. Per le strade, durante le serenate notturne, si cantavano le poesie di don Vincenzo F. Sedita, poeta epico del ‘700, mentre Gaetano Di Giovanni raccoglieva notizie di folklore e appunti di storia locale. Verseggiava con successo don Salvatore Mamo e dispiegavano il loro apprendistato poetico Alessio Di Giovanni e Gaetano Cordova. Su tutti aleggiava la figura, ormai mitica, di Giuseppe Antinori, medico e garibaldino d’Aspromonte e Mentana nonché sociologo antelitteram, che curò Garibaldi ferito in Calabria. In paese esisteva una tipografia in grado di stampare libri e nel 1893 era stato fondato il Fascio dei Lavoratori, che finì come tutti gli altri in Sicilia.
E’, quindi, un paese culturalmente in fermento quello in cui Pasquale Alba radicò la sua poesia, sbocciata sicuramente nel paese d’origine all’ombra di Santo Lucia, del quale, nel 2000, è stato pubblicato “Lu munnu a la riversa” (Amm.ne Comunale di Cattolica E., a cura di L. Gurreri) e al quale l’Alba aveva dedicato dei versi estemporanei di gioia, quando lo incontrò, un giorno, dopo averne appreso la notizia (falsa) della morte. (cfr i testi)
Il leit-motiv, il sentimento ispiratore della sua poesia fu, in primis, la povertà alla quale non volle mai rassegnarsi perché essa comporta sofferenze e disagi anche per coloro che su di noi fanno affidamento per un’esistenza decorosa.
L’accanimento della sorte (“Nun sugnu poviru pi lu me vuliri”) traspare chiaramente dalla premessa al suo componimento più famoso, intitolato “L’omu svinturatu”, che racchiude tutta la sua amarezza e la sua tristezza, la sua visione della vita: amarezza della precarietà del proprio stato, la coscienza di un’insoddisfazione, di un torto subito e la protesta di chi deve forzatamente arrangiarsi per sbarcare il lunario. E fu di certo un lungo “arrangiamento” perché il poeta dovette “industriarsi” svolgendo parecchi mestieri come lo zolfataro, il bracciante, il mugnaio.
Ciò non gli fa perdere la visione serena,“paciosa” della vita e, anche se qua e là traspare una soffusa nota di malinconica tristezza ( si vedano ad es. le poesie Mamma e Lu cantu di li surfari, citato), la sua visione è comunque tranquilla, allegra, poeticamente arguta e l’Alba si mostra acuto osservatore dei vizi e delle vicende umane, che sa ritrarre in modo perfetto indulgendo in particolari a volte con ironia e sarcasmo, altre con un sorriso sardonico da cui si evince, oltre alla sua personale esperienza, tutta la saggezza e l’ingenuità della filosofia popolare.
Alba è grande ove dipinge macchiette o bozzetti, come in Mastru ‘Gnaziu, o in Lu pignuramentu, allorché diventa allusivo, es. ne La cicuriedda, idillico, come nella rappresentazione della natura, i cui paesaggi primaverili lo incantano e nel ritratto de La vacca e caustico, come quando si riferisce agli amministratori (cfr. Sugli amministratori), alle malelingue (es. La fimmina tinta), o alla classe padronale, come nell’inizio del componimento, che in origine constava di “cinquanta e ‘na parti”, intitolato L’omu svinturatu, che da il titolo a tutta la raccolta.
Per lui il mondo è un continuo divenire e la rassegnazione e il fatalismo tipici della nostra gente sono solo dei momenti nel lungo cammino della vita: “Dissi a la sorti: tu hai ragiuni / pigliati spassu e fammi compagnia”. Compagnia per cosa? Per andare avanti, nella fortuna o nelle avversità.
Ma l’Alba fu, anche e soprattutto, un poeta estemporaneo, che componeva in qualsiasi momento della sua giornata, quindi un abilissimo verseggiatore, che talvolta diventa cervellotico e di non facile comprensione (cfr. Lu chianu ‘nclinatu e La coffa).
Un altro esempio di estemporaneità è legato ad un episodio accadutogli poco prima di morire. Era da poco finita la guerra e a Cianciana, come in tutti i paesi, mancava la pasta. Il Comune distribuì allora delle tessere ai più bisognosi; l’Alba ne rimase sprovvisto. Si recò dal segretario comunale, certo Moscato da Raffadali, e così l’apostrofò:
Vinni la festa di Natali:
‘un ristà nenti pi Pasquali?
Il Moscato, con le lenti sul naso, gli lanciò un’occhiata distratta, per cui il poeta:
Arza l’occhi e mi talìa,
‘un cci nn’è pasta pi mia?
Ricevette la Tessera.
In ogni caso la sua lettura è, sempre e comunque, piacevole, la parlata schietta, originale, popolare; la rima e il verso a volte semplicemente perfetti.
Certo in un estemporaneo i difetti pressoché congeniti (doppi sensi, ripetizioni, cerebralità contorta o forzata) sono tanti, ma prevalgono i pregi e il grande valore storico documentario della sua produzione, della quale abbiamo salvato il salvabile e ci rammarichiamo di non essere intervenuti prima (eravamo ventenni). L’Alba ha dei lampi, dei guizzi, delle felici intuizioni che gli consentono di cogliere l’essenza delle cose e determinati particolari di situazioni, che vengono fissati magistralmente e in questi casi non ha nulla da invidiare ai poeti culti paesani, con i quali spesso discuteva di poesia.
Chiunque voglia azzardare un giudizio sulla sua produzione poetica non potrà prescindere dal suo semi o totale analfabetismo e non potrà che inserirlo tra i poeti popolari, tra i picador del verso, per il taglio spiccatamente popolaresco delle sue composizioni, per la proverbialità indotta di alcuni versi, che ancor oggi vengono ripetuti a memoria soprattutto dagli anziani in determinate circostanze, e per il fatto che quanto da lui “’mpuisiatu” non è stato ancora sistemato in un volume a stampa tipografica.
(Eugenio Giannone)
Ecco una delle sue più celebri poesie: TEMPU D’AMURI
‘N primavera brilla la natura, sciuriscinu li pianti a la campagna e l’uccillinu ‘mmezzu a la virdura gira di ccà e di ddà pi la campagna. E comu la primavera è di li sciuri l’uccellu gira pi fari l’amuri
e la matina agghiorna all’arba chiana, l’uccellu canta ‘nta la virdi rama; sata di ccà e ddi ddà, di cima ‘n cima e cu lu cantu la cumpagna chiama. Dddu duci cantu, ‘nti l’aperta campagna lu senti e avvicina la cumpagna. Sciuscià lu ventu appena appena appena . . . ca fa moviri li fogli; la cardidduzza canta e s’alliena, ‘namentri lu cardiddu si ricogli e cu lu cantu seguita la scena, si gira ‘ntunnu fina ca la cogli. E a jornu chiaru canta la sirena trema lu mari cu tutti li scogli.
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