
Recensione di Eugenio Giannone
Olio/acrilico su tela 50 x 70
Dino Vaccaro pittore! chi l’avrebbe mai detto? Lo sapevo fotografo per diletto, ma che avesse dimestichezza coi pennelli… E’ un’autentica sorpresa, una piacevolissima scoperta che depone a favore del suo estro, della sua fantasia e della serietà con cui si approccia alle cose. Un degno figlio di Cianciana, dalla quale bisogna partire per ricercare le radici della sua arte, che appare quella d’un naif evoluto. Il quadro riassume la tragedia, individuale e collettiva, d’un’intera comunità (quella ciancianese, appunto), che per più d’un secolo ha legato la sua vicenda esistenziale all’estrazione dello zolfo. Il lavoro dovrebbe essere una benedizione, per molti paesani è stato una maledizione.
In primo piano due impronte: una di colore giallo (a piede nudo) l’altra di scarpone con i segmenti neri. Il giallo indica lo zolfo delle miniere dove migliaia di ciancianesi (1322 nel 1902) hanno consumato la loro esistenza a picconare e dove i “carusi”, bambini dai 7/8 ai 14 anni, provvedevano a trasportarlo fuori sulle spalle.
L’impronta nera, che sa di carbone, indica non il cammino della speranza, ma un’altra disperazione: il viaggio verso Marcinelle (ma anche verso i bacini minerari francesi e tedeschi), dove l’8 agosto 1956 si consumò una delle più incredibili tragedie minerarie dell’Europa occidentale e dove perirono 262 minatori, di cui 136 siciliani, che avevano risposto con l’emigrazione (altro dramma) alla chiusura delle zolfare (l’ultima, a Cianciana, nel 1962; il 1° maggio, festa del lavoro!).
Sulla sinistra della tela alcune fasi della lavorazione del biondo minerale con quel rosso che sa di sangue; sulla destra il trasporto, in vagoni spinti a braccia, del carbone, nero come la pece a simboleggiare le tragedie che in miniera si consumano, anche per fuga di gas tossici, e causano lutti annuncianti una fame ancora più tetra degli abiti indossati dalla donna che afferra i figli.
Non aveva abbondato di fantasia G. De Maupassant quando, per descrivere la zolfara, ricorse alla metafora dell’inferno, un inferno non di morti ma di vivi.
Si nota nel quadro tutta l’umana sofferenza e partecipazione emotiva dell’Autore alle tribolazioni di questi derelitti; gli stessi colori, ora chiari ora scuri con quel cielo lontano, dicono che non si può (e non si deve) rimanere insensibili dinanzi a questi “spettacoli” lesivi della dignità umana e soprattutto che bisogna conservare memoria di ciò che siamo stati. La pittura come storia, dunque. Grazie, Dino!
Eugenio Giannone