Un borsone di colore rosa

 

Lo specchio rimanda un viso, il mio viso. Strizzo gli occhi per riconoscerlo. Capelli sbiaditi dalla mancanza di tintura, occhi arrossati e occhiaie scure e profonde, labbra serrate e spente. Il dolore cambia l’espressione. Ti spegne, resti solo accesa per ricevere altro dolore. Non mi riconosceresti neanche tu. Eri pronta sempre a richiamarmi ogni volta che scivolavo, per pigrizia, all’abbandono di me stessa. Provo a passare il pettine tra i capelli. Lo calco sulla cute come a volere sciogliere anzi strappare gli ultimi ricordi, ma vengono via solo i capelli che cadono sulle spalle e dalle spalle a terra formando strani cerchi che, chissà perché, catturano facilmente la mia attenzione. Tutto va bene pur di distogliere il pensiero dal tuo pensiero. Che invece resta li certo che più niente e nessuno potrà mai sostituirlo. Il tuo dolore. Il mio dolore. “Io lo amo”- mi eccheggiano nelle orecchie le tue parole e rivedo il tuo sguardo deciso. Hai avuto sempre lo sguardo deciso, anche quando eri piccina sapevi affermare la tua volontà. Prima ancora di stare sulle tue gambine esili. Sono rimaste sempre esili le tue gambe, io te le invidiavo. Hai sbattuto la porta e sei andata via, solo in compagnia delle tue cose che avevi racchiuso nel borsone rosa, quello che ti aveva regalato Agata per il tuo diciottesimo.

Quante volte l’ho lavato in lavatrice, quando lo portavi sporco di olio del tuo motorino. Il tuo motorino. Dove si trova ora il tuo amato motorino? Ora me l’hanno restituito il tuo borsone rosa pieno delle tue cose, che io non tocco. Non lo apro proprio quel borsone, uscirebbe il tuo odore. L’odore della tua pelle, del tuo sudore, del tuo profumo. L’odore di te. Lo terrò sempre chiuso quel borsone. Chiuso come il mio cuore pieno solo di te. Noi siamo rimasti in due, io e tuo padre, soli in queste stanze silenziose, già da quella sera in compagnia solo di quelle parole….Io lo amo. Che tormentano l’aria che respiriamo soffocandoci. E ogni volta che ci chiamavi dall’ospedale, con il viso gonfio di botte, o un occhio pesto, o un braccio rotto, o un taglio sulla gamba, o dei punti sulle labbra. Da quelle labbra tu pronunciavi sempre le stesse parole Io lo amo. -E’ maggiorenne voi non potete decidere diceva il poliziotto dietro la guardiola—–se lei vuole andare con il suo compagno e non fare denuncia non possiamo fare niente. Che bel paese!!!!!! Mentre seduta sul cesso affondo le unghie sulle mie cosce e serro i denti……dovevo portarla a casa con la forza. Chiuderla a chiave…….che genitori siamo….moderni ….moderni…..in corsa con i tempi. Io e papà non dormivamo più, mangiavamo anche poco e uscivamo ancora meno. La tua vita e la nostra vita, andava in parallelo, su due binari di solo dolore. Quando sei rimasta incinta mi hai chiamato appena uscita dal laboratorio di analisi. Adesso le cose cambieranno mamma – mi dicesti. Ed eri felice. Ed io ero felice. Ma non fu cosi. E quando un calcio fermò quel cuoricino dentro di te, solo allora tu dicesti …..Adesso basta. Ritornasti a casa con il tuo borsone rosa, con dentro le tue cose che sistemammo nei cassetti quella stessa sera, per la paura reciproca, che potevi cambiare idea. Allora ebbe inizio il calvario. Quante telefonate, di giorno e di notte. Quante schede telefoniche cambiasti, ma lui trovava sempre il modo di rintracciarti. Suppliche e minacce, minacce e suppliche. Eravamo sfiniti anima mia. Distrutta tu, distrutta io. Impaurita tu, spaventata io. Così per mesi, giorni, ore, minuti. Poi alle minacce seguirono dei fatti e ai reati le denuncie. Ormai ci conoscevano tutti i poliziotti e i carabinieri. Papà conservava tutti quei fogli senza peso dentro un carpettone. Passava serate a leggere quelle parole e a cercare una soluzione. Non sono venuta a vederti su quel letto d’acciaio. No. Bastava solo papà. E neanche le carte ho voluto leggere. Quelle dove c’era scritto come eri morta. No Neanche i vestiti sporchi del tuo sangue ho voluto indietro. No E i giornali con le tue foto non li ho mai comprati. No Parlavano di te. Ma che ne sanno loro di te. E mettevo giù il telefono a tutti i giornalisti che volevano venire a chiedere di te o di portarmi in tv per darmi in pasto a chi vuole scrutare ogni piega del mio volto e guadagnare sul mio dolore, sul nostro dolore. Informazione? Ma tanto non cambia nulla. Che ci fa il tuo nome e il tuo viso scorrere tra i nome e i visi di tante ragazze sorridenti alla vita. E tutti quei telegrammi della gente che conta, ne ho fatto un falò, un bel fuoco che ho guardato spegnere piano piano mentre la fiamma d’odio dentro di me ardeva più viva che mai. La bara si. Quella era davanti a me. Era arrivata rivestita da una tela di iuta. Aveva viaggiato tutta la notte dentro un treno in compagnia di pacchi che contenevano chissà cosa. Poi qualcuno avanzò nel corridoio della navata centrale di quella chiesa, dove c’è un Cristo appeso ad una croce che ci guarda dall’alto con il volto appoggiato sulla spalla, si avvicinò alla tua bara e cominciò a scucirla e a liberarla. Ti liberava dal dolore, dal peso di quella terribile angoscia che non ti lasciava più dormire. Non so chi fosse. I miei occhi erano troppo pieni di lacrime e vedevo come quando stai con gli occhi aperti sott’acqua. Poi ricordo la mia mano che veniva sollevata insieme al mio braccio e stretta da altre mani, per tante volte e tante, e tante e tante volte. E le mie orecchie piene solo della tua voce, ogni tanto intervallata dalle voci di sconosciuti che bisbigliavano parole, parole, parole………che chiamano di conforto. Ma domani sarò lì. In quella grande aula dove in alto starà appeso sempre quel Cristo sulla croce, in quel grande edificio di marmo bianco di epoca fascista, dove mai immaginavo di entrare. Ci sarà tanto silenzio e fruscio di carte. Tua madre mi guarderà e implorerà perdono. Siamo due vittime. Due donne falciate. I miei occhi saranno limpidi, perché voglio vederti, voglio guardarti in faccia. Non li staccherò da te. Avanzerò come un soldato di trincea dentro la tua anima o qualcosa che gli assomigli per cercare dove nasce il tuo disprezzo ed estirperò tutto quello che dentro di te è rimasto di lei. Tu non meriti neanche il suo ricordo. Innaffierò, invece, come si fa con una pianta per farla crescere rigogliosa, il tuo senso di UOMO FUORIPOSTO da ogni cosa fino a quando il tuo stesso disagio ti sotterrerà dentro una terra calpestata. Tu avanzerai piano piano e mi cercherai tra i banchi e nel silenzio. Cercherai il mio sguardo. E ci parleremo così. Tu mi dirai il tuo perché e io ti maledirò. Devo farlo. Lo farò per te. Perché quello mi resta e pregherò ogni notte affinché quel Cristo perdoni solo me.

 

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