Vera Pegna, la militante che sfidò a mani nude la mafia agraria di Sicilia

Vera Pegna, la militante che sfidò a mani nude la mafia agraria di Sicilia
di Salvatore Coccoluto

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Una storia di coraggio e passione civile che risale al tempo in cui fare politica era soprattutto missione. Così la viveva Vera Pegna, una militante del PCI che nel 1962, a 28 anni, si ritrovò a Caccamo, in provincia di Palermo, a sfidare il potere mafioso. Ai tempi il paesino era nelle mani del boss Peppino Panzeca, che aveva addirittura una poltrona riservata in consiglio comunale. Vera fece irruzione nella vita di questo piccolo centro, provando a scuotere le coscienze e a scalfire il muro di paure e silenzi. Questa esperienza la racconta nel libro Tempo di lupi e di comunisti – La storia mitica della ragazza che sfidò la mafia (Il Saggiatore), in uscita il 26 marzo. Dopo esser cresciuta in Egitto e aver studiato tra Svizzera e Inghilterra, si traferì in Sicilia per conoscere e collaborare con Danilo Dolci, attivista soprannominato il “Gandhi italiano” per le sue lotte sociali non violente. La donna si stabilì prima a Partinico e poi a Palma di Montechiaro. Poi si iscrisse al PCI e i primi di aprile del 1962 il partito la inviò a Caccamo per creare un’opposizione alla Democrazia Cristina locale, fortemente collusa con il potere mafioso. Al suo arrivo un militante l’accolse con queste parole che non lasciavano speranza: “Cara compagna, qui tu sei nella Repubblica di Caccamo. […] Qui a Caccamo non c’è niente da fare. Qui a Caccamo c’è mafia. Qui a Caccamo c’è don Peppino Panzeca, che è il capo di tutta la mafia. E c’è l’amico del card. Ruffini, don Teotista Panzeca, che è il vero cervello della mafia. Qui a Caccamo è la Repubblica della mafia. Non c’è niente da fare”.


Chi aveva provato ad opporsi al potere mafioso in paese, infatti, non era andato lontano. Il contadino Filippo Intili, per esempio, nel 1952 era stato ucciso a colpi di accetta solo per aver richiesto che il prodotto dei campi venisse spartito secondo la legge Gullo, ovvero 60% al mezzadro e 40% al proprietario. A Caccamo, invece, la mafia imponeva che il prodotto fosse diviso al 50%. La donna non si fece intimorire da queste storie e dal clima ostile che percepiva intorno a sé. Rivitalizzò la sezione e insieme agli altri militanti cominciò a dimostrare alla gente del paese che era arrivato il momento di alzare la testa. “Ero così indignata da ciò che vedevo a Caccamo, dalla povertà e l’indigenza più totale, che non riuscivo ad aver paura – racconta Vera a FQ Magazine – Certo, in me c’era una buona dose d’incoscienza”. Decise di presentare la lista del PCI e di lanciare la sfida alla mafia. Prima di un’assemblea, vedendo Panzeca seduto ad ascoltare, Vera prese il microfono e disse: “Prova, prova, per don Peppino. Se rimane seduto davanti a noi, allora è vero che è un mafioso; e se è così, allora gli chiedo di alzare gli occhi e sorridere che gli voglio fare la fotografia”. Il capomafia si rifugiò in una macelleria, uscendo poi dal retro. La donna continuò la campagna elettorale seguendo la linea della sfida senza paura. E alla fine le votazioni diedero un verdetto sorprendente: la totale egemonia della DC era finita, vennero eletti quattro consiglieri del PCI, uno dell’Unione siciliana cristiano sociale e tre delle destre. I comunisti entravano per la prima volta al consiglio comunale.
Il giorno della prima assemblea, la Pegna arrivò in Comune insieme ai compagni eletti e si sedette sulla sedia in pelle riservata a don Peppino. Scese il silenzio nella sala. Dopo qualche minuto di panico, arrivò il messo a portare via la poltroncina tra gli applausi dei presenti. Nonostante intimidazioni, avvertimenti e sabotaggi, la donna cercò di far rispettare le norme e di ristabilire la legalità in paese. Fu la strage di Ciaculli, il sanguinario attentato avvenuto il 30 giugno 1963 nell’ambito della guerra di mafia, a chiarirle quanto era stata importante e coraggiosa la loro battaglia: dalle indagini della Polizia sull’accaduto emerse che Giuseppe Panzeca non era un semplice boss di paese, ma il presidente del “tribunale della mafia”. Denunciato per associazione a delinquere dalle autorità, si diede alla latitanza. A Caccamo, però, la fuga del capomafia ebbe effetti contrastanti. “C’era immobilismo e paura – continua Vera – In sezione ci fu parecchio sgomento per questa reazione della gente. Poi nel 1964 decisi di andar via per diversi motivi, su tutti avevo compreso che il partito non era più con noi. Purtroppo da soli non potevamo fare tanto”.
Vera ha raccontata la sua vicenda per la prima volta nel 1992 nel libro omonimo pubblicato dalla casa editrice Luna. Ha deciso di riproporla nel testo in uscita il 26 marzo, integrandola con una seconda parte in cui narra il suo ritorno a Caccamo nel 2012 e le successive visite in paese, dove il suo coraggio non è stato dimenticato ed è ancora d’esempio. “Mi hanno contattato tramite Facebook alcuni giovani tra i 25 e i 40 anni che avevano preso in mano un circolo del PD e quello di‘Caccamo Domani’ – continua Vera, oggi combattiva signora ottantenne – Queste persone volevano fare antimafia, ma desideravano raccontare le storie di chi l’aveva fatta prima di loro”. Al suo ritorno a Caccamo ha trovato una realtà giovanile che affronta apertamente il problema della malavita nella zona. Anche se, secondo la Pegna, questi ragazzi dovrebbero superare una “visione verticistica della politica che vuole l’amministrazione comunale come unico interlocutore e il municipio come unico luogo dove si fa politica”, organizzando iniziative spontanee intorno a obiettivi comuni legati al territorio. Prendere posizione, per esempio, su problemi concreti come le pale eoliche che deturpano il paesaggio di una delle contrade più belle. Tra gli anziani, invece, ha notato ancora una certa reticenza a parlare di mafia. “Quando ho fatto domande mi hanno detto che ero troppo curiosa. E quando ho parlato con qualcuno delle battaglie del sindaco nel contrasto all’illegalità, un anziano mi ha risposto: ‘Il sindaco è un morto che cammina’”.

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