La fuitina è un fenomeno di costume tipico della Sicilia.
Questo fenomeno avveniva soprattutto nel passato, ma in altre forme e con differenti modalità avviene ancora oggi (anche se circoscritto nei quartieri più popolari, che comunque raccolgono una grossa fetta del popolo palermitano).
La fuitina potrebbe somigliare a quella che in altri luoghi viene detta fuga d’amore, due innamorati contrastati dalle famiglie che scappano per coronare il loro amore.
In realtà il fenomeno di cui parliamo è un po’ più controverso e complesso.
Il termine fuitina riassume differenti comportamenti.
La fuga d’amore è uno di questi, ma non ne rappresenta al pieno la sua la peculiarità.
L’elemento scatenante principale è il fattore economico e sociale.
Capitava infatti che fuggissero coppie “fidanzate in casa” da anni, col benestare delle famiglie.
Se mancava il contrasto cosa giustificava la fuga?
Spesso queste coppie erano costrette ad aspettare tanti anni prima di potersi sposare per diversi motivi.
Ad esempio era possibile che si attendessero i matrimoni di altri fratelli o sorelle maggiori (era d’uso che ci fosse una sorta di graduatoria per sposarsi. Prima le donne, dopo i fratelli maschi, poi secondo l’età).
Se si aveva la “sfortuna” di avere una sorella maggiore “zitella” l’attesa poteva protrarsi per molto tempo.
Altri motivi erano legati al fattore economico. Il matrimonio costava (e costa tutt’oggi) molto, sia il giorno in sé (ed ancora oggi molte famiglie si indebitano pur di fare una bella figura), ma anche tutto quello che comportava la stipula di questo contratto. Le famiglie si accordavano sulla dote (“a duota”), di cui la sposina doveva essere in possesso (in genere biancheria ricamata), o la casa e il mobilio che spesso toccavano al futuro sposo (oltre che uno stipendio fisso).
Spesso serviva del tempo per mettere da parte il denaro necessario e se si era in un momento di ristrettezze (se per esempio la famiglia stava già spendendo molti soldi per organizzare il matrimonio di un altro congiunto) il matrimonio veniva posticipato.
Così avveniva “il bello”, il colpo di scena, cioè quello che rende peculiare la fuitina: la complicità delle stesse famiglie.
Nella maggior parte dei casi , complice dei fuggiaschi (“fuiuti”) era una sola delle due famiglie coinvolte, quella in maggiori difficoltà, ma capitavano addirittura casi in cui entrambe le famiglie erano complici e un po’ come in una farsa teatrale, ognuno recitava la propria parte.
Spesso le famiglie si rendevano conto delle difficoltà dei futuri sposi (ad esempio la madre della ragazza temeva l’avanzare dell’età della figlia) o avevano un reale problema economico, ma se avessero optato per un matrimonio meno fastoso e più frettoloso, “la gente”,avrebbe pensato male (che erano poveri, indebitati etc, oppure potevano dubitare dell’”integrità” morale della sposina che “magari poteva essere già incinta”, vista la rapidità delle nozze). Tutto ciò avrebbe colpito l’orgoglio delle famiglie, che per salvarsi rispetto all’occhio e alla bocca di popolo, preferivano sfruttare l’opportunità che la fuitina dava per risparmiare, per affrettare i tempi, per salvare l’onore delle famiglie (prima disonorato e poi riparato).
C’erano altri casi per cui gli innamorati non potevano sposarsi o almeno “fidanzarsi in casa”. La minore età, qualche contrasto tra famiglie, oppure l’impossibilità a frequentarsi perché per qualche caso della sorte, mancavano madri o zie che sorvegliassero i due giovani durante il fidanzamento.
In questi ed altri casi si organizzava la fuga, ma quasi sempre con la complicità di qualche parente.
La fuitina si svolgeva secondo le medesime modalità.
I due si organizzavano tramite bigliettini consegnati dai complici (fortunatamente niente a che vedere con i “pizzini” più noti oggi…), si davano appuntamento e scappavano (spesso venivano ospitati da una nonna , una zia o una delle due famiglie), “consumavano il matrimonio” (pena il possibile fallimento di tutto).
Seguiva la telefonata del fidanzato alla famiglia di lei (“buongiorno mi fuivu a so figghia”) con relativa arrabbiatura del padre, “sdillinchio”(attacco finto isterico) della madre (che spesso sapeva tutto), riunione di famiglia. Lo sposino avvisava anche la propria famiglia e anche lì insulti vari (ma di minore intensità).
Poi un parente si sarebbe “immischiato” per trovare un accordo e far riappacificare tutti.
Quindi avveniva l’incontro, dove volava qualche simbolico ceffone, e poi tutti si abbracciavano piangendo, mangiavano pasticcini e decidevano che i due si sarebbero dovuti sposare in fretta (ancora meglio se c’era un bebè in arrivo).
Così la faccia era salvata e il portafoglio pure.
La ragazza fuiuta doveva sposarsi subito, perché in caso contrario, se fosse accaduto un problema e il matrimonio non fosse andato in porto, sarebbe stata disonorata per sempre e nessuno l’avrebbe mai più sposata.
Il ragazzo capace di compiere tale gesto era guardato con rispetto da tutti perché faceva un atto eclatante, e soprattutto voleva riparare al più presto “assumendosi le sue responsabilità” dimostrando di “curarsi dell’onore della fidanzata e delle famiglie”.
Certo parliamo di altri tempi in cui a scegliere per il corpo e per la vita di una donna erano tutti tranne che la donna stessa. Oggi anche qui fortunatamente qualcosa è cambiato (ma permangono ancora forti strascichi tipici del patriarcato).
Nel corso del tempo vennero definiti col termine fuitina altri i fenomeni un po’ diversi.
Per una diversa libertà di costumi dovuta ai mutamenti sociali che inevitabilmente toccarono anche la Sicilia (le ragazze uscivano di casa per andare a scuola o a lavorare), i giovani innamorati avevano più facilità ad incontrarsi da soli e poteva capitava di incorrere in una gravidanza imprevista. In questi casi, la coppia confessava e il maschio “riparava” sposandosi. Così le famiglie un po’ per giustificarsi dicevano “sinni fuieru” (sono fuggiti), ma questo in realtà è un fenomeno più moderno che nulla ha a che vedere con la rocambolesca, eclatante, concepita come un gesto quasi “cavalleresco” fuitina originale.
Oggi il fenomeno fuitina è inesistente nei ceti medio-alti, per un cambiamento socioculturale. I giovani hanno modo di incontrarsi, fidanzarsi, vivere insieme e se devono aspettare è solo per trovare un lavoro non precario. Ma soprattutto per le donne (per cui il matrimonio rappresentava nel passato l’unica possibilità di libertà rispetto alla vita prima del matrimonio) oggi è possibile svolgere una vita sociale con maggiore libertà (lavorare, studiare, viaggiare, uscire da sola o con un ragazzo etc) anche da non sposate, ed avere una diversa consapevolezza di sé.
Le donne hanno più libertà di scelta e il loro onore non
è più legato a certi tipi di concetti “tribali”.
Una mentalità tradizionalista, malgrado tutti questi cambiamenti e una libertà apparente è comunque ancora esistente e diffusa in ogni ceto sociale, e a maggior ragione si radicalizza negli ambienti più arretrati.
In alcuni quartieri popolari, di fatto si usano le stesse modalità di quarant’anni fa, anche se le ragazze sembrano più libere e si vestono alla moda.
Può capitare che le ragazze a tredici anni siano già donne di casa perfette e soprattutto senza prospettive di emancipazione personale, ed hanno ancora come unico scopo di rivalsa sociale il matrimonio. Decidono quindi di affrettare i tempi, perché piuttosto che occuparsi della casa o dei figli dei propri genitori, possono curarsi della propria (tanto prima o poi sempre quello sarà il proprio destino). E così ancora si ricorre alla tipica fuitina e a tutta la farsa che ne consegue.
Fonte: https://agavepalermo.com/2008/11/20/a-fuitina/
Fuitina
Madri a dodici anni, nonne a ventiquattro. Succede ancora nei quartieri popolari di Catania e in alcuni paesi della provincia come Adrano, Paternò e Biancavilla. Succede a Carmela che a giugno diventerà madre per la prima volta e due mesi dopo festeggerà il tredicesimo compleanno. È una ragazzina nata e vissuta a San Cristoforo, il quartiere più popoloso e popolare di Catania, in una famiglia di povera gente: il padre è disoccupato da molti anni, la madre mantiene altri sei figli facendo la domestica. La casa dove abitava coi genitori si trova nel cuore del rione, fra venditori ambulanti e macellerie equine. È un basso pieno di umidità, i vetri delle finestre sostituiti col cartone, il tv-color sistemato su una credenza che cade a pezzi. Carmela è scappata di casa alla fine della scorsa estate con Piero, un quindicenne che fa il meccanico per quattrocentomila lire al mese. È minuta, sveglia, molto sensibile. Ha occhi bruni, capelli corvini, il seno ancora acerbo e un grembo che si gonfia di giorno in giorno. Parla a ruota libera e sorride spesso. “Ho conosciuto Piero due anni fa. Avevo undici anni e facevo la prima media, lui era in terza. Ci si vedeva a scuola durante la ricreazione, si scherzava, si parlava del più e del meno. Un giorno ci siamo messi insieme. Ad agosto siamo fuggiti, ospiti per qualche giorno di parenti. Quando siamo tornati ero già incinta. Da allora viviamo nella casa dei suoi genitori. Sposarci? E con quali soldi?”.
Da queste parti la chiamano fuitina, cioè fuga. Ma fuga da chi e da che cosa? “Mio padre tornava ogni sera ubriaco e picchiava tutti, moglie e figli. L’inattività lo abbrutiva. E io ho sempre vissuto col desiderio di andarmene, di farmi una mia famiglia”.
Ad Adrano l’ottanta per cento delle ragazze ricorre al sistema della fuitina. Questo paesone ai piedi dell’Etna detiene il primato italiano delle mamme-bambine. Lo segue a ruota Paternò, dove in molte scuole dell’obbligo presidi e professori affrontano quotidianamente il fenomeno.
A Paternò ci sono ragazzine che a tredici anni sono madri di due figli. “Le ragazze che ricorrono alla fuitina fanno parte di famiglie molto numerose, appartengono a classi sociali povere e hanno un tasso di scolarizzazione bassissimo”, dice l’assistente sociale del Comune. “Molte non riescono a conseguire la licenza elementare. Alcune hanno padri detenuti o alcolizzati, madri prostitute. Si illudono con la fuitina di staccarsi definitivamente dal degrado. E invece si cacciano in situazioni identiche o addirittura peggiori. Difficilmente queste coppie contraggono matrimonio: l’ostacolo maggiore è dato dalla situazione economica. Arrotondano l’esiguo reddito familiare col sussidio di duecentocinquantamila lire riservato alle ragazze-madri. Dopo qualche anno il legame si spezza. A farne le spese sono soltanto le donne che, assieme ai figli, tornano nelle famiglie d’origine. Un circolo vizioso dal quale non riescono a uscire”.
Difficilmente queste ragazzine riescono a rifarsi una vita. Gli uomini vogliono la donna illibata. Ci sono donne che ricorrono a sistemi incredibili pur di superare certi pregiudizi. Come è avvenuto a San Cristoforo di recente: una signora ha sottoposto a visita ginecologica la figlia dodicenne per verificarne l’illibatezza. Poi, per dimostrare la sua verginità a qualche corteggiatore dubbioso, ha affisso il certificato medico sulla porta di casa.
Antonella ha quattordici anni ed è incinta da due mesi. Parla un dialetto stretto. Convive con un uomo di trent’anni che vende ferro vecchio negli immensi depositi alla periferia di Catania. Abita coi genitori, alcuni cognati, due sorelle e tre fratelli. Tutti hanno almeno una fuitina alle spalle. Lei, la più piccola, ha confermato la tradizione. Vivono a Paternò, ammassati in cucina e nel soggiorno, la sera stendono i materassi e dormono per terra. Manca all’appello la sorella più grande che fino allo scorso anno viveva con loro: “È fuggita quando abbiamo scoperto che se la faceva con uno dei cognati. Suo marito voleva prenderla a coltellate. Ora sta a Siracusa e aspetta un figlio dal nuovo compagno”.
Scene di ordinaria miseria, parte di un sottobosco umano che nessuno vede. Antonella ne parla con straordinaria disinvoltura, come se ogni particolare, ogni sfumatura del suo racconto fossero scontati. È attorniata da nipoti e cugini. Ogni giorno fanno la spola dalla casa al bar: comprano patatine, caramelle e cioccolatini e fanno qualche colletta. Chiederle perché ha fatto la fuitina a quattordici anni appare perfino inutile.
Angela vive ad Adrano in uno dei quartieri abusivi sorti nell’ultimo trentennio. Ha vent’anni, è alta, bruna, molto magra. Indossa abiti dimessi. A tredici anni ebbe il primo bambino, a quindici il secondo. Fuggì mentre i fratelli erano in carcere, non ha completato le scuole dell’obbligo e a stento sa fare la firma. Oggi vive con un ragazzo di due anni più grande, in uno stato di miseria incredibile: “Alla festa del patrono quando tutti si fanno i vestiti nuovi, io non esco per la vergogna. Come l
i faccio uscire i miei figli? Il mio convivente è un sorvegliato speciale: deve scontare una condanna per furto e spaccio di droga. Non ha voglia di lavorare, la sera si ubriaca e da qualche tempo ha una relazione con un’altra: se tento di ribellarmi mi picchia. Una condizione assurda: certi giorni a casa manca perfino il pane, da una settimana hanno tagliato la luce. Ho tentato di fare molti lavori, adesso sono disoccupata”.
Ma non tutte le fuitine hanno come sfondo gli ambienti sordidi del sottoproletariato urbano. Ci sono storie pulite che maturano in contesti non proprio evoluti, ma fondamentalmente sani. Storie a lieto fine come quella capitata a Giuseppina – ventotto anni, licenza elementare, genitori emigrati per un decennio in Germania – che a quindici scappò dalla sua casa di Adrano per mettere di fronte al fatto compiuto una madre eccessivamente severa, che “si opponeva al fidanzamento in famiglia perché ero troppo giovane”. “Un giorno decidemmo di scappare. Accadde mentre mio padre era ricoverato in ospedale e mia madre gli faceva compagnia; riempii il borsone di indumenti, andai in camera da letto e col rossetto scrissi sullo specchio: ‘Mamma, sono fuggita con Ignazio!’. Tornammo dopo una settimana, mia madre mi diede un ceffone ma tutto finì lì. Ora ho tre bambini e sono felice”.
“Molti sono i ragazzi che fanno la fuitina per la curiosità di provare un’esperienza diversa. Certi programmi televisivi (soprattutto le telenovele) giocano un ruolo fondamentale nella loro formazione”, dice la dottoressa Concetta Riccioli dell’Asl di Adrano.
La storia di Lidia, licenza elementare, quindici anni, al nono mese di gravidanza, è una di queste: Lidia afferma di non avere genitori oppressivi. Eppure quasi un anno fa anche lei è scappata di casa. Vive con il compagno in un dignitoso appartamento popolare di Adrano che divide con papà e mamma: “Avevo voglia di fare un’esperienza nuova. Ma non sono pentita”.
Chi invece si dice pentita (“in parte”) è Piera, diciassette anni, da due madre di un bambino: “Non credevo, al momento della fuitina, di incontrare tutte queste responsabilità. Voglio bene al mio compagno, ma ho il rimpianto di non avere vissuto i miei anni migliori”. Le si illuminano gli occhi quando dice: “Fra un anno mi sposerò in chiesa e finalmente riuscirò a coronare il sogno della mia vita”.