Il Platani è il terzo fiume della Sicilia per lunghezza e per bacino ma non per portata d’acqua, avendo per gran parte dell’anno carattere torrentizio che, tuttavia, non gli ha impedito d’inghiottire sovente vite umane e animali.
Se non abbonda d’acqua, è carico di storia, di leggende e di riflessi letterari.
Hanno scritto su questo fiume il poeta A. Di Giovanni, che ne parla soprattutto nel romanzo “Lusaracinu” e nel poemetto “A lu passu di Giungenti”, A. Pizzuto, A. Petyx, E. Vittorini, S. Quasimodo, A. Cremona.
Il Di Giovanni battezzò Valplatani” l’immensa distesa di latifondi che rendevano omogenea tutta la sua vallata centro-meridionale (l’asta principale), che offriva le medesime connotazioni antropiche, paesaggistiche, economiche, storiche e folkloristiche.
Viene spontaneo pensare al Platani come ad un corso d’acqua, ad un fiume, ma ad una strada che nel corso dei secoli ha messo in contatto, più che dividere, popoli di etnie e lingue diverse, che lungo le sue sponde si sono sì scontrati, ma molto più spesso incontrati in una osmosi di esperienze commerciali, culturali e umane.
Anticamente il Platani era navigabile per 14 miglia dalla foce e i marinai lo risalivano sulle loro navi alla ricerca di zolfo e di sale. I Greci lo chiamavano Halykòs, che vuol dire salato; infatti il Platani è un fiume salmastro perché, dopo pochi chilometri dalla sorgente, incontra delle vene di salgemma che lo rendono, appunto, salato.
I Latini lo battezzarono Lycus e gli Arabi Iblâtanu. Pare che il nome Platani derivi dal latino popolare o dal greco platànion che significa platano, pesce o ruscello.
Sempre anticamente il fiume segnava i confini tra i Sicani e i Greci d’Agrigento e poi tra i Siracusani e i Cartaginesi.
Storicamente se ne sono occupati autori del calibro di G. Di Giovanni, L. Tirrito, V. Amico, T. Fazello, Cluverio e, andando a ritroso nel tempo, Polieno Macedone, Timeo, Tucidide, Dionisio d’Alicarnasso, Diodoro Siculo, Erodoto.
Il fiume ha inciso sul paesaggio e sulla qualità di vita degli abitanti della valle, dove i popoli hanno lasciato traccia indelebile della loro presenza.
I più antichi oggetti risalgono al Paleolitico inferiore e sono dei “bifacciali”, ciottoli prima levigati dalla corrente e poi adattati dagli uomini alle loro esigenze. Fossili animali documentano come nelle praterie e nei boschi vivessero grandi mammiferi come l’elefante, il cervo, il bue primigenio e altri che poi si estinsero.
Nell’Eneolitico, o età del Rame, (IV-III millennio a. C.), col passaggio dall’economia venatoria a quella silvo-pastorale, sorsero i primi villaggi sulle basse colline del Platani, difesi da costoni rocciosi dove venivano scavate le sepolture a pozzetto o a grotticelle. Nei villaggi si raggruppavano nuclei di famiglie consanguinee autosufficienti e che adoperavano utensili litici.
Nella prima metà del II millennio a.C. arrivano in Sicilia, grazie ai mercanti dell’Egeo, utensili, suppellettile e metalli che generano cambiamenti nei modi di vita, nei riti funerari, nella ceramica, nelle armi e negli strumenti di lavoro.
Venuta a contatto con una civiltà superiore nell’età del Bronzo medio (1300/1200 ca. a. C.), la società indigena si evolve, passando dall’organizzazione tribale ad una più complessa forma associativa.
Le “città” sicane continuano ad essere delle poleis autonome ma si riconoscono come un’unica etnia; qualcuna, come Inico, aveva il suo re e dominava su altre.
Resti animali e vegetali documentano la coltivazione dei cereali e la presenza di nuovi animali.
Ma narrare la storia del fiume Platani è raccontare la storia della sua gente: i Sicani.
Secondo Tucidide e Dionisio d’Alicarnasso essi provenivano dall’Iberia e traevano il loro nome dal fiume omonimo della terra d’origine o dal re che li aveva guidati in quest’avventura. Tale supposizione appare inverosimile e, tra l’altro, in Spagna nessun corso d’acqua è stato mai denominato con quel nome. Più attendibile risulta la versione di Timeo e di Diodoro Siculo che li definiscono autoctoni. Comunque, tutti gli storici antichi concordano sul fatto che essi in un primo momento fossero principalmente stanziati nella Sicilia orientale da cui si sarebbero allontanati perché l’Etna aveva distrutto i loro villaggi o perché spinti ad occidente dai Siculi.
Si stabilirono così nel centro dell’Isola e, quindi, il Platani segnerebbe il centro della Sicanìa vera e propria e, se la toponomastica ha un senso, i monti della Sicilia centrale sono detti appunto Sicani.
I Sicani, come gia detto, abitavano in villaggi costruiti a ridosso di costoni rocciosi e in altura, per evitare i pirati e forse anche la malaria, che infestava il fiume in molte sue parti.
La società sicana era retta a matriarcato e va da sé che la maggiore divinità fosse una dea: De-Metèr (Demetra, Dea Madre, Terra Madre). La donna, che rappresentava la vita e la fertilità, godeva di una posizione di privilegio e ne sono testimonianza le numerose statuette fittili o in pietra che la rappresentano. Quando in una tribù il numero delle donne superava quello degli uomini il capo tribù le lasciava andare alla ricerca d’un marito. Esse erano dette fanciulle vaganti. Erano molto liberi nei costumi, ma dopo il matrimonio s’imponeva la fedeltà e le donne erano molto gelose. Non gli uomini, come testimonia la vicenda di Minosse e delle “Kocalidi”.
Questo popolo di agricoltori e pastori abitava in caverne naturali o allargate; poi con la pietra tufacea cominciò a costruire templi e città. Pare che da pietra o selce (sike) origini il loro nome. Secondo un’altra versione il nome deriva dal termine accadico “sikanu”, che significa stabilire, abitare; quindi coloro che si stabiliscono, che abitano. Proverrebbero, dunque, dalla Mesopotamia! (cfr. I. Alessi–G.Vaccaro, Nel Regno sicano di Kokalos, S. Angelo Muxaro 2003.
Dalla sike ricavavano asce, punte di frecce e di giavellotto.
Archi, frecce e lance erano ricavati da un albero simile alla betulla e da canna d’India.
Combattevano nudi, armati di fionda, montavano a pelo e non spogliavano i nemici uccisi, com’era consuetudine di altri popoli antichi. Dai Cretesi appresero a seppellire i loro morti.
La presenza dei Cretesi e degli incontri-scontri con i Sicani è testimoniata dalla vicenda di Kòkalos e Minosse, dalla cosiddetta Guerra dei cinque anni che si perde tra storia e leggenda.
Quando Minosse sia sbarcato in Sicilia non è facile stabilire, come non è facile indicare di quale Minosse si tratti. Se il personaggio in questione è Minosse II la Guerra va collocata al tempo della guerra di Troia, diversamente va più in là nel tempo, attorno al 2300/2400 a. C.. Minosse, d’altra parte, era anche il nome col quale i Cretesi chiamavano i loro re.
Cos’era venuto a fare Minosse in Sicilia? Secondo qualcuno a conquistarla; altri narrano che era giunto in Sicania inseguendo Dedalo, che gliene aveva combinato di tutti i colori.
Come da molte fonti storiche, Dedalo, dopo aver aiutato Teseo e Arianna a fuggire dal labirinto, riuscì a lasciare l’isola mediorientale e trovò ospitalità presso il re sicano, che si rifiutò di consegnarlo per non tradire l’ospitalità. Per Kocalos il fuggitivo architetto costruì numerosi palazzi nella nuova capitale Kamicos, situata molto probabilmente sul colle gemello dell’attuale S. Angelo Muxaro. Invitato in città ad un banchetto, il re cretese fu affogato mentre faceva il bagno dalle figlie di Kocalos. Ai suoi sudditi fu riferito che il sovrano era morto accidentalmente. Ottenuto il cadavere, i cretesi, che avevano ricevuto il permesso di stanziarsi sull’Isola, costruirono una città alla foce del fiume Platani e la chiamarono Minoa, l’attuale Eraclea Minoa, che secondo altri era stata fondata dallo stesso Minosse. Per altri ancora, i Cretesi ebbero l’autorizzazione a ritirarsi con i resti del loro re verso l’interno, dove diedero sepoltura al morto in una grandiosa tomba a tholos (la grotta della Gurfa, presso Alia), per poi fondersi con gli abitanti del luogo.
I Sicani combatterono per la loro libertà contro Greci e Cartaginesi e si sottomisero Falaride, tiranno di Akragas, attorno al 550 a. C.. Dalla fusione dei Sicani e dei Siculi con i Greci nacquero i Sicelioti.
Qualche tempo dopo arrivano in Sicilia i Romani, che tutto omologano e cominciano a disboscare a favore della coltivazione cerealicola. Le terre, in latifondo, vengono affidate a pochi schiavisti, i villaggi lentamente scompaiono e, al loro posto, sorgono le massae o villae, che continuano anche in periodo bizantino. E’ una desolazione! La vallata, in qualche modo, rinasce in periodo arabo quando vaste aree furono frazionate e recuperate all’agricoltura; sorsero fortificazioni militari, borghi e casali. Con Normanni e Angioini ritornano i feudi, vasti, monotoni e desolati paesaggi con economia cerealicola e pastorale[1].
La lotta dell’uomo contro il Platani si accentua tra il XVI e XVII secolo con la fondazione di diverse cittadine. I nuovi continuano l’opera di sconvolgimento dell’ecosistema naturale, modificando idrografia, microclima e suolo, provocando il degrado della macchia e il passaggio alla gariga e alla steppa mediterranea. L’uomo moderno “ci ha messo il carico”, inquinandolo e devastandolo per lunghi decenni per oggi correre ai ripari, decretando nel 1984 la sua foce Riserva Naturale Orientata e chiedendo anche l’istituzione d’un parco fluviale (ben lungi dal venire). I pesci, finalmente, vi hanno rifatto capolino e nella sua vallata sono state censite più di centosettanta specie di uccelli. Non possiamo, però, non sottolineare come la coltivazione e la seccatura del lino siano un pallido e nostalgico ricordo. Come quello dei maraguna (marangoni), quegli sventurati, cioè, che ancora a fine ‘800, per guadagnare un tozzo di pane caricavano sulle loro spalle i viandanti e li depositavano sull’altra sponda, mettendo a repentaglio la propria vita. Scarsi erano infatti i ponti che ne collegavano le rive.
*cfr.AA.VV., Halikòs, aspetti naturalistici e culturali del fiume Platani (a cura di Monica ed Eugenio Giannone), Prov. Regionale di Agrigento, Agrigento 2006.