Sul finire dell’estate, la quiete di via Moscato veniva disturbata dall’insistente ronzio di fastidiosissime vespe. Ad ogni vespa che passava c’era sempre qualcuno che diceva: “tempu di vinnigna è”. La strada cominciava, allora, ad accogliere botti e “carrateddi” di tutti “li iusi” per essere lavati e trattati con intrugli aromatici vari. A quel punto, trovavo la spiegazione al motivo per il quale la buccia di ogni arancia, consumata nel periodo invernale, veniva sistematicamente appesa a qualche chiodo della cucina e lasciata lì per tanti mesi. Da lì a qualche giorno l’odore acre del mosto avrebbe invaso tutto il paese.
Mentre i tempi della natura dettavano i ritmi di lavoro e con essi quelli della vita, la quotidianità veniva scandita dalle giornate della settimana: il lunedì era il giorno del bucato. I panni, dopo l’ammollo con la liscia nelle pile di legno zincate e una vigorosa “stricata”, venivano cosparsi di sapone mollo e stesi sui balconi o sul selciato della strada, sfruttando così l’effetto sbiancate del sole; il martedì ai fili di tutti i balconi, candidi lenzuoli, appesi alle canne “cu li ghiacchi”, riempivano la strada di un fresco profumo di pulito che, l’indomani, sotto il calore dei ferri da stiro, diventava ancora più penetrante.
Le altre giornate scorrevano nell’ordinaria gestione della casa e della famiglia fino al sabato, altra giornata di particolare impegno. I protagonisti del sabato erano “li cati di zincu” e li vastuna. Il sabato “si lavava la casa”, ci si preparava al giorno di riposo e si “iva a cattari la carni” per il pranzo domenicale. Il tardo pomeriggio di un sabato, la quiete della strada venne interrotta dallo sbalzo in strada della nostra gatta e dalle urla di mia madre che, inseguendola, non sapeva più quale imprecazione mandarle. La gatta aveva mangiato la carne della domenica! Mentre mia madre “’ncularata” per l’accaduto, trovava la consolazione delle vicine, io che la carne non riuscivo proprio ad ingoiarla, in cuor mio gioivo, pregustando per l’indomani una bella padellata di “patati friuti cu l’ova”. La sacralità della domenica, giornata di riposo comandato, veniva scandita dal tintinnio delle campane che richiamava il paese alla celebrazione della Santa Messa. Le nonne si alzavano all’alba per la prima Messa. Le mamme affollavano, invece, insieme ai loro figli, la Messa del pomeriggio. La domenica, la via Moscato sonnecchiava e i rituali della giornata di festa, consumati per lo più fra le mura domestiche, la inondavano di un religioso silenzio. Il risveglio era segnato dal profumo del sugo già sul fuoco e il ribollìo dell’acqua, per il bagno dei bambini, nella “pignata più grande”. Seguiva il rito della “vistuta” con gli abiti, le scarpe della domenica e l’accessioramento con la collana e il bracciale del battesimo. Dopo, per tutto il giorno, l’unico rumore che avrebbe interrotto il silenzio della strada sarebbero state le voci delle mamme che di tanto, in tanto facevano capolino sull’uscio di casa per lanciare ai figli la ricorrente raccomandazione domenicale:”sta attentu, ‘un t’allurdari!”.
Lo stesso rito si ripeteva per le grandi feste. Ricordo una festa di san Giuseppe,mentre dalla finestra giungeva il suono della banda, mia madre aveva finito di vestire mio fratello con il completino della festa. Si apprestava a vestire me, in piedi sulla sedia e, intanto, mio fratello con un pezzo di legno in mano, a mò di manubrio, giocava a far finta di guidare un automobile per la stanza mimando con la voce il rumore del motore. Decise ad un certo punto di fingere una marcia indietro e non guardando dove metteva i piedi finì dentro la “bagnera di zinco” dove mia madre ci aveva appena lavati. Apriti cielo! Vi lascio immaginare “li colari” di mia madre che doveva ripiegare su un vestito non adatto alla giornata di festa! Quell’incidente, sconvolgeva tutto il