Quando nei panieri che passavano da una abitazione all’altra per scambiarsi, in segno di reciproca gratitudine i prodotti della terra, comparivano “li zorbi”, da lì a poco, la stagione invernale avrebbe ricacciato tutti nelle proprie case, restituendo la Via Moscato alla sua propria funzione. Per noi bambini cominciava un noioso periodo in cui fra noi e la strada si sovrapponevano i vetri appannati delle finestre. Vetri appannati dal vapore della pentola sul fuoco per riscaldare l’acqua gelida dei rubinetti. Pentola d’acqua calda alla mattina per l’igiene personale, pentola d’acqua calda nel tardo pomeriggio per lenire con un pediluvio a base di sale i fastidi dei geloni, pentola d’acqua calda alla sera per riempire le borse che, riposte nei letti una mezz’ora prima di coricarci, ci consentiva di evitare il brusco impatto con le lenzuola ghiacciate.
Il vapore trasformava i vetri delle finestre in lavagne dove tracciare con le nostre dita, fra il forte disappunto delle mamme, i disegni più svariati e ci restituivano l’immagine di una Via Moscato deserta il cui silenzio veniva
interrotto dal tintinnio dell’anello dei “tancini” che le donne “annacavanu” davanti la porta di casa per consentire l’accensione della carbonella, dallo scambio di qualche fugace parola da un balcone e l’altro e dal passaggio“di lu capraru” che, all’imbrunire, bussava ad ogni porta, attendendo “la caputa” dove mungere la sua capra. Le giornate invernali costringevano tutti fra le mura domestiche, ma al primo accenno di pioggia in arrivo, le donne si precipitavano in strada a piazzare “cati” e “bagneri” allo sbocco di ogni “’ncanalata”. La pioggia scrosciante trasformava la Salita Regina Elena in un “vadduni” in piena, portando con se i chiodi degli zoccoli dei muli che abbondavano davanti la bottega“di lu zi Duvicu Alessi, lu firraru”. I temporali portavano così l’occasione di uno svago per noi bambini: “appena scampava” ci si precipitava in strada a recuperare, fra “li cuti di la scinnuta”, questi particolari chiodi con la testa quadrata, facendo a gara fra chi ne recuperava di più. Una volta Ciccu Medardo trovò 10 lire. Da quella volta, la ricerca dei chiodi diventò il pretesto alla speranza di potere trovare qualche spicciolo.
Al di là di queste fugaci incursioni in strada, la maggior parte della giornata trascorreva fra i banchi dell’asilo presso le monache. La mattina ci mettevano seduti in attesa di Suora Speranza che dalle cucine portava un pentolone di latte bianco bollente che di gradevole, per i miei gusti, aveva solo il celeste delle ciotole nelle quali ci veniva servito. Dopodiché iniziava l’attività didattica con le mie maestre preferite: Suora Nazarena e la maestra Maria Campisi, cominciava la mattinata d’impegno, cercando di mettere correttamente in fila in quel quaderno a quadri: aste, sedioline, numeri e le cinque vocali. La prospettiva di guadagnarsi come premio i palloncini che la mattina Suora Nazarena prometteva al miglior compito, era troppo allettante per sbagliare! La nota dolente giungeva con il pranzo, servito sempre da suora Speranza. Non era consentito nessun capriccio e tutto quello che ci veniva servito doveva finire. Dopo questo sacrificio arrivava, però il momento del gioco e, così, le ultime ore passavano aspettando il proprio turno per un giro sul dondolo di ferro a due posti con il quale, tutti, prima o poi, provammo il dolore lancinante della schiacciata del piede sotto il dondolo in movimento. Poco prima dell’ora di uscita, le monache cominciavano a spazzare i pavimenti e, altra nota dolente: guai a trovare fra la spazzatura qualche pezzo di pane caduto inavvertitamente a terra durante il pranzo. La Suora, dopo la filippica sulla “grazia di Dio” che non si butta a terra, cominciava a soffiarlo per liberarlo dalla polvere e individuava il bambino che doveva mangiarlo. A turno, è toccato a tutti! Così, mentre il malcapitato ingoiava malvolentieri quel pezzo di pane, chi, durante la giornata, si era mostrato più buono si gustava un ritaglio di ostia che la suora tirava fuori da una scatola, custodita sotto chiave in un armadio. La giornata all’asilo terminava con la speranza di essere evitati dalla mangiata del pezzo di pane recuperato dal pavimento, fra la spazzatura, e l’ansia di sentirsi nominare per gustare quel ritaglio di ostia. Il ricordo dei brevi pomeriggi invernali, trascorsi a casa, ” fra “’un cunti e ‘nna jucata a mani casdi”, hanno il profumo dell’olio d’oliva appena “nisciutu” che si sprigionava dalle grandi giare di mio nonno Ciccu e il profumo “di li cuddureddi mezzu lu focu di lu bracieri” che ci preparava mia nonna Sabetta.
Le giornate si concludevano con l’Ave Maria recitata, in ginocchio sul letto, davanti al capezzale della Madonna delle Lacrime che alla fine ci dispensava monete di 5 lire e caramelle. Ci volle qualche anno ancora per capire che le monete e le caramelle non le lanciava la Madonna, ma mia madre che, durante la preghiera, stava ad ascoltarci alle nostre spalle.