1957 Via Moscato III° parte

La strada non lesinava la presenza di belle signorine, ma anche la presenza di bei giovanotti.

Così finì che alcuni si sposarono fra di loro: le sorelle Marino, Ciecia e Maria sposarono i fratelli Castellano, Felice e Davide, Tita Di Noto sposò mio zio Nino Soldano, il fratello di mia madre. Si, perché in via Moscato, di fronte casa nostra abitavano pure i miei nonni materni. Questo mi consentì, dopo il nostro trasferimento a Palermo, di non perdere mai il legame con quella strada, perché tutte le estati e tutte le vacanze scolastiche le trascorrevo a Cianciana, a casa dei nonni.

Ma ripartendo dal periodo in cui le signorine di Via Moscato mi spupazzavano al suon di Marina, Marina, e i giovanotti, insieme ai padri, ogni mattina all’alba partivano verso le campagne del circondario per rientrare la sera a tarda ora, ricordo che le giornate estive trasformavano la strada in un cantiere di lavoro in cui tutte le donne si dedicavano alla finitura dei prodotti della terra. Le mogli di li “burgisi” si trasformavano in direttori dei lavori delle altre donne che, in cambio di qualche “munniddata”di prodotto finito o “di scorci pi lu focu”, prestavano la loro opera. Si cominciava, in giugno con la “spicchiata” delle fave, provvista che per le fredde serate invernali avrebbe assicurato pasti caldi e a buon mercato come “li gidi cu lifavi”, “li favi a bozza”, “la pasta cu li gasoli o li linticchi cotti cu un pugnu di favi spicchiati”, lu maccu di favi”. Luglio era anche il mese di maturazione “di li bifari”. Così le donne più giovani della Via Moscato, fra le quali anche mia madre, prima di andare a letto, si davano appuntamento per l’indomani mattina all’alba “pi iri a ficu”. “mammì mi ci porti?” chiedevo a mia madre. “si bedda mè, dumani matina t’addivigliu prestu e veni cu ‘nnatri”.

La gioia della promessa si infrangeva, ogni mattina, su quella ciotola di fichi freschi che al mio risveglio trovavo sul tavolo della cucina. Arrivava agosto e con esso la raccolta delle mandorle. Gli uomini “ivanu a scutulari”, le donne in paese si dedicavano “a la scrucchiulta”. Sedute attorno ad un grande “crivu” che la padrona della mandorle provvedeva a rimpinguare man mano che le mandorle, private dal loro mallo, passavano dal tavolo alle coffe, allenavano le loro lingue in pettegolezzi più o meno fondati e tenevano a bada noi bambini con le storie più inverosimili come quella che ci raccontò un giorno “la za Rusidda La ‘Namini”. Fra il serio e il faceto, un giorno ci disse: “addevi, ma lu sapiti ca anna purtari lu mari a Cianciana?” e noi increduli: “ e comu lu portanu?”. “Cu li panara!” rispose la za Rusidda e io di rimando: “miii e quantu panara ci vonnu?”. Fra un pettegolezzo e l’altro, fra una storiella e l’altra, le coffe si riempivano e si svuotavano sui marciapiedi della Salita Regina Elena, affacciati su quel sole che ne avrebbe assicurato una più rapida essiccazione. I tappeti di mandorle che davano al paesaggio un caldo colore ambrato, avrebbero, presto, lasciato il posto al contrasto di colori più decisi: il verde “di li ficu” e il rosso “di li scanatura cu lu strattu”. In un caldo d’agosto che consegnava alla vista l’immagine di un paesaggio tremulo per il vapore che la terra esalava, si consumavano gli ultimi riti di una stagione nelle quale le soffitte di ogni casa si riempivano di ogni genere di provvista. Così al grano e alle fave, “spicchiati” nel mese di giugno, si aggiungevano “li ficu “ncannati”, i grappoli d’uva e di pomodori. Ai miei occhi di bambina, tutto ciò che oggi mette in risalto la bellezza dei colori e il contrasto dei profumi, rappresentava la sintesi di una immensa fatica.

La fatica di quegli uomini che coglievo attraverso gli occhi e le parole delle loro madri, delle loro mogli e delle loro sorelle. Uomini per me invisibili visto che, al mattino, lasciavano la mia Moscato quando per noi bambini era ancora notte e, la sera, tornavano quando già era troppo tardi per una interlocuzione diversa dal mero fugace “buonasera a tutti” elargito con la fretta di chi non vedeva l’ora di mettere a riposo le stanche membra.

La fatica delle donne, attorno alle quali ruotava tutta la famiglia, si materializzava nell’affannoso incastro delle incombenze domestiche con la collaborazione prestata ai propri mariti, figli, fratelli, nel lavoro della terra e ciò che per noi oggi è un hobby, per loro era lavoro. Così l’arte del cucito, della maglia, del ricamo non erano un passatempo, ma un lavoro per le necessità della famiglia che consentivano di risparmiare i compensi alle sarte di professione. Giornate così intense di lavoro, intervallate solo dalla fedele osservanza del riposo domenicale, non lasciavano spazio a nessuna forma di divertimento che non fosse quello delle riunioni di famiglia nelle giornate di festa “sulenni”.

Il ricordo di così tanta fatica, ripagata dallo stretto necessario ad assicurare la sopravvivenza, era niente rispetto alla grande dignità con la quale venivano affrontati il sacrificio del vivere quotidiano.

LAVORO, SACRIFICIO, DIGNITA’: questi i valori che ho visto affermare in via Moscato nei miei primi anni di vita che non posso fare a meno di associare alla melodia di “Marina” e al ricordo del piacevole sapore “di lu bruscareddu”.

(FINE 3º PUNTATA……………………..CONTINUA)

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