Quell’ultimo caffè

XII Concorso nazionale di narrativa                                                                                      

QUELL’ ULTIMO CAFFE’

Dritto, davanti alla finestra, con gesti precisi ed uguali, annodava la cravatta.

Gli occhi sulla piazza che si illuminava del nuovo giorno. Respirava piano, quasi a voler cancellare   la sua presenza in quello spazio.

Dalla cucina si percepiva il gorgoglio della moka e l’odore del caffè si sprigionava in tutta la casa.

Lo versava nell’anonima tazza bianca che con il tempo si era ingiallita, assumendo un effetto decrolè.  Stile che si era impadronito pian piano di tutti i metri quadri dell’appartamento, delle cose che lo riempivano e persino della sua persona a cominciare dalla pelle.

La sollevava con tutto il piattino, poi ne afferrava il manico e la portava alle labbra chiudendo gli occhi.

Era uno dei pochi momenti graditi della giornata. Il caffè, amaro, si posava sulla lingua scottandola per poi espanderne l’aroma fin dentro le narici. Scendeva lungo la gola lasciando quel retrogusto gradevole che l’avrebbe accompagnato fino al caffè successivo.

Il resto della bevanda veniva lasciato all’interno della caffettiera ad annerirne le pareti. L’alluminio aveva perso, così, il suo grigio brillante per confondersi con il colore del caffè. Più nera la caffettiera, più buona la bevanda e più densa.

 Il sole era già nel cielo, pronto ad essere ombreggiato da qualche nuvola carica di pioggia ed egli era già pronto a essere ingoiato dalla solita giornata anonima.

Fece cadere le braccia pesanti sulla giacca di lino azzurro polvere, inforcò gli occhiali e pose sul capo il suo cappello di paglia, avviandosi per le scale.

-Buongiorno Avvocato – l’accolse la voce della portiera nell’androne.

Rispose con un cenno della testa senza incrociarne lo sguardo.

I saluti negli ultimi mesi erano contati. Molti s’inventavano il da farsi pur di non rivolgergli lo sguardo.

Da quando aveva lasciato il carcere, l’impronta dell’infamia lo precedeva. Come un ombra arrivava prima del suo corpo. E quando il sole si spostava lo seguiva alle spalle.

Attraversò la strada, diretto verso la solita sedia, allo stesso tavolino del Bar Trieste.

Il secondo saluto del giorno era quello del picciotto del Bar che gli portava subito il quotidiano stropicciato, l’acqua e zammu’ e il secondo caffè della giornata.

Erano le sei. Dall’interno del bar il rumore dei chicchi che scendevano nella macchinetta macina caffè rompeva il silenzio della notte appena andata via, e dalla frantumazione ne veniva fuori l’odore che, mischiandosi con l’aria fresca del mattino, svegliava tutta la piazza e le sue traverse, il suo olfatto e la sua mente.

Come era successo col primo caffè, anche quel gradevole pizzicore gli portò alla memoria Giannina, la moglie, che con un sorriso glielo porgeva mentre stava ancora a letto. I suoi figli che lo bevevano insieme al latte, con gli occhi ancora impastati dal sonno e Guido, il compagno di carcere che tutte le mattine lo preparava con molto zucchero per addolcire un po’ l’amaro di quel luogo.

Aprì il giornale, leggendo solo i titoli, osservando qualche pubblicità ammiccante per passare subito ai necrologi.

Si è spento il Rag. Vattelapesca all’età di……mogli e figli ne danno il triste annuncio-– I colleghi si stringono al dolore dei familiari per la scomparsa dell’Avv. Tizio. E altri ancora che si snocciolavano sotto i suoi occhi.

Il suo non l’avrebbe letto nessuno, perché non ci sarebbe mai stato. Forse la sua morte sarebbe diventata un fatto di cronaca, sporcando ancora una volta le pagine del quotidiano locale “Schiacciato dal peso dell’infamia si è suicidato (finalmente) l’Avvocato Mezzapaglia.

Il suo corpo trovato dalla cameriera appeso ad una trave della cantina. Se ne sarebbe parlato per qualche giorno, in piazza, dal droghiere, tra i banchi della chiesa. “Pi mia era nnuccenti– l’avrebbe difeso qualcuno. “Chiddru chi si miritava! Ci avia persu tempu stu porcu!”, l’avrebbe ancora condannato qualcun altro.

Intervenne una folata di vento che gli portò via il cappello spettinandogli i capelli, distogliendone il pensiero, fisso, opprimente e insopportabile.

La vita cominciava ad affacciarsi dalle case, a immettersi nel traffico a passare tra le vie.

Ora iniziava la parte più leggera della sua giornata. L’aspettava come il vento fresco al tramonto in una giornata di afa.

Un gioco, da lui stesso inventato, che lo teneva occupato fino all’ora di pranzo e, in un certo senso lo riportava ad un dialogo, muto, con la gente.

Attribuiva ad una persona, che gli sarebbe passata davanti durante la mattina, l’aroma di un caffè, (aspro, dolce, bruciato, denso, lungo, corto), basandosi sulle sembianze fisiche dell’individuo, sulle dicerie sul suo conto e del suo modo di sentire, del suo istinto.

Stamattina lo start d’inizio al gioco veniva dato da Rosa, che con movenza sensuale e appariscente, scendeva dall’alto della scalinata, che immetteva al corso principale, come una mannequin.

Rosa era una donna sulla sessantina, viveva da sola fuori il paese, e lavorava in un ufficio pubblico. Entrava al bar intorno alle otto, ordinando con un sorriso, che a fatica si allargava dalle labbra   troppo turgide, un caffè ed una pasta.

Stretta in un cappottino nero di due taglie inferiori che, metteva in evidenza tutte le sue fattezze che, chissà per quale miracolo, stavano ancora su, attirando lo sguardo dei passanti. Lei si nutriva di quelle occhiate come un bambino del latte.

Lavorava sul suo corpo, unico scopo della sua vita, spartendo il suo stipendio tra chi rallentava lo scorrere dei suoi anni.

Tutto di Rosa era di plastica, forse anche i suoi pensieri, e come la plastica inderfomabile, fredda, finta, indistruttibile.

A guardarla ci si trovava a riflettere che oggi le generazioni non si susseguono ma stranamente si accavallano, portando una confusione a chi si affaccia alla vita e a chi sta per lasciarla.

Ai miei tempi la nonna, la mamma e la figlia avevano molti elementi di diversificazione, la prima aveva i capelli sicuramente bianchi, la seconda cominciava a fare i conti con le rughe e la terza portava la minigonna.

A Rosa aveva associato il caffè   dal sapore un po’ stantio. Quello che rimaneva per mesi in un barattolo all’interno di una credenza al quale il tempo aveva fatto perdere l’aroma che lo caratterizzava ma, che meglio di niente, il calore della fiamma lo portava a borbottare dalla moka e addolcendolo con un po’ di zucchero, poteva ancora regalare alla bocca la sua illusa fragranza.

Il campanello della bicicletta elettrica fece incrociare i suoi occhi con quelli di Manfredi, il postino. Arrivava intorno alle 8,45. Con un saltello scendeva dal suo mezzo, lo appoggiava alla parete del bar ed estraeva dalla grande borsa di cuoio una serie di buste e bustoni, precipitandosi dentro il locale.

Sempre di fretta Manfredi!

Con la pelle del viso arrossata e sudaticcia, fronte aggrottata e labbra serrate, gettava la posta su un tavolino, afferrava
la tazza del suo caffè decaffeinato mentre con l’altra posava accanto al piattino i soldi già contati.

Non salutava mai, non ringraziava mai, non accettava mai niente da nessuno.

Tutto il giorno portava in giro la sua rabbia che recapitava insieme alle lettere.

Il suo malessere nasceva dentro il suo corpo, neanche lui sapeva se dal cuore o dalla mente o da quella cosa chiamata anima.

Il caffè che lo rappresentava era quello stretto e ristretto, che riempiva solo il fondo della tazzina, che sapeva di bruciato, dal colore nero catrame. Quello che era stato preparato male, con poca acqua nel serbatoio, molto caffè nell’imbutino, troppo alta la fiamma del gas. Veniva su a fatica, malgrado più volte provavi a raffreddarne l’acqua in ebollizione sotto il getto del rubinetto.

Così era Manfredi. Concepito da una ragazza violentata da uno sconosciuto, venuto su senza amore, accelerando la sua crescita per disfarsi del pensiero.

Un decaffeinato non avrebbe mai placato la sua rabbia.

E poi Luisa. Alle nove in punto, tirava su la saracinesca della sua edicola svegliando chi ancora non si era liberato dalla stretta di Morfeo.

Mai prima delle 9, perché dalla scomparsa del marito doveva accompagnare i figli a scuola. Per questo motivo i quotidiani del mattino venivano lasciati al bar. Le cortesie che accomunavano i commercianti del posto.

Luisa era una bella donna, ancora giovane ed attraente. Profumava di genuino, di pane sfornato, di fiori appena recisi.

Mai aveva negato un sorriso, una pacca sulle spalle, un orecchio attento all’ascolto.

Sembrava che il suo dolore avesse triplicato il percepire di tutti i suoi sensi che al contrario nella gente comune, chiude rendendo insensibile ogni forma di sentire.

Malgrado la giovane età, lei conservava nel suo cuore le vecchie tradizioni che cercava d’imprimere, come un marchio, sui due figli.

Per le feste passava le notti a cucinare i dolci della tradizione.

Per la festa dei defunti dolcetti a base di mandorle e coloratissimi fruttini di marzapane, a Natale i mostaccioli con il ripieno di fichi secchi e zuccata preparata durante l’estate, a Pasqua non mancavano sulla tavola le pecorelle di pasta reale farciti di crema al pistacchio.

E quando lo zucchero a velo non addolciva le sue lunghe notti di solitudine, le ore erano riempite dal ricamo di delicati arabeschi e fiorellini sulle lenzuola di lino che avrebbero fatto parte della dote di Agnese. Ogni tanto lanciava uno sguardo di rassegnazione al crocifisso, appeso alla parete sopra la testata del grande letto e subito dopo alla fotografia del marito al centro del comò.

Il caffè associato a Luisa era il surrogato. Il caffè che si beveva nelle ristrettezze. Quello che, però, non revocava immagini tristi e di dolore, ma ricordi di bracieri che riscaldavano le stanze, le mani e i cuori.

Profumi di erbe, frutti e radiche che si sprigionavano dalle tazze fumanti, il cui fumo che si addensava nell’aria mischiandosi a quello che usciva dalle bocche prendeva la forma di fate, cavalieri, orchi e maghi. Quel caffè di cicoria o di carrube che univa gli uomini, soltanto nella miseria.

Intorno alle dieci eccolo spuntare dal fondo della piazza il rag. Leopoldo Tirzillo.

Impeccabile nel suo spezzato grigio con a fianco l’immancabile Ginetta, la cagnetta pezzata sua compagna da sempre.

Uomo buono e taciturno, dalle fattezze nobili ed eleganti, ancora visibili malgrado l’età.

Lo ricordo da ragazzo, teneva i conti di una sartoria per donne, vicino al municipio. Da sempre i suoi atteggiamenti erano delicati, come i lineamenti del suo viso, come le sue mani, la sua andatura. Le ragazze della sartoria lo cercavano per un parere su un cappellino o per la scelta di una stoffa o addirittura per un consiglio, una confidenza. Lui preferiva la compagnia delle donne a quella degli uomini e con il tempo aveva imparato a non girarsi più indietro per un’occhiatina di scherno, le sue orecchie si erano velate e non sentivano più neanche i risolini e i fischi che solitamente accompagnavano i passi delle donne. Si era indurito a tutto ciò cercando di concentrarsi nel suo cammino, al ticchettio delle sue scarpe lucide sui ciottoli.

Dura era la scorza del pregiudizio che rivestiva l’animo degli uomini, che nutriva il loro orgoglio e l’inutile vanto.

Ogni tanto, Leopoldo, si allontanava dal paese per qualche giorno e il vuoto lasciato nella sartoria era riempito dalle chiacchiere che, come contagiosi   sbadigli, si allargano alle bocche di tutto il paese.

Da tempo, però, non lasciava più il paese. Trascorreva le sue giornate a curare i gerani del terrazzo mentre ascoltava la voce della Callas che cantava un’aria dell’Andrea Chenier.

Il caffè associato a Leopoldo era lungo, riempiva tutta la tazzina, come la solitudine che aveva colmato tutta la sua vita. Caffè misto a tutte le lacrime versate per una colpa che non gli apparteneva; macchiato da qualche goccia di latte che si allargava tra il nero del caffè, come un marchio, che ne contraddistingueva il colore ed il sapore.

Era quasi mezzogiorno, tra qualche minuto i rintocchi dell’orologio avrebbero fatto svolazzare le colombe che stavano rannicchiate all’ombra della torre.

L’odore forte della salsa si sostituiva a quello del caffè, ormai lontano dall’olfatto ma vivo solo nella sua mente.

Estrasse dal taschino l’orologio e guardò l’ora. Un quarto all’una. Bevve l’ultimo sorso d’acqua rimasto nel bicchiere, affondò la mano nella giacca e pagò il conto.

Fece un giro largo prima di ritirarsi, a quell’ora erano tutti a tavola.

Il sole era già al centro del suo cielo e bruciava.

Bruciava la paglia del suo cappello ingiallendola e bruciava i suoi pensieri senza incenerirli.

Un cane ciondolava con la lingua penzolante, gli si avvicinò, l’annusò e andò via.

Una donna si era affacciata al balcone gridando il nome del figlio, le saracinesche dei negozi si abbassavano a metà per indicare a qualche ritardatario che tra un po’ tutto si sarebbe fermato perché si avvicina l’ora del convivio.

Il tintinnio delle chiavi di casa l’accompagnò per tutta la strada, ricordandogli che doveva ritornare, alla sua casa, alla sua nuova vita.

Avrebbe trovato, come ogni giorno, solo un angolo della tavola apparecchiato, due piatti uno sull’altro per tenere in caldo la pietanza, un bicchiere rovesciato, la caraffa con l’acqua, la bottiglia del vino e la ciotola con la frutta.

Non gli andava di tornare a casa, imboccò la via che portava al mare.

 Alla mente si affacciarono tutte le persone viste in quella mattina impregnate degli aromi che a loro aveva attribuito e ad un tratto si chiese a quale caffè lui poteva essere accostato.

Pensò alla sua infanzia, alla durezza di quel padre che gli insegnava la vita sovrapponendola alla dolcezza della madre che cercava di rendergliela attraente.

Quanti erano in quella casa. Tanti. Con le bestie, e come esse, vivevano in due stanze di un pianterreno nel quartiere di Li Grutti. Non si sa se le case, tuguri bui, dove la luce filtrava attraverso quell’unico uscio, avessero dato il nome al quartiere o se le case si erano costruite simili alle grotte per non deturparne il nome.

Il quinto di sette figli. L’unico che non si piegava all’obbligo del padre a volerlo pastore. Ricorda ancora, il bruciore sordo delle cinghiate sul dorso. Ad ogni colpo giurava a se stesso che nulla e nessuno gli avrebbe mai impedito di lasciare quella vita.

Grazie alle suppliche della madre e alla simpatia nutrita nei suoi confronti dall’arciprete del paese, riuscì ad entrare in seminario. La “chiamata” non gli era mai arrivata. Né prima, né durante la sua permanenza al convitto, né mai. Ma quell’occasione gli servì per lasciare per sempre, in una mattina di scirocco, quella vita.

Non si voltò mai indietro a guardare quei visi della
sua famiglia.

Dritto in prima fila sulla corriera, guardava davanti a se quella strada sterrata che si apriva a quella vita sognata tutte le sere in quell’angolo di letto che lo ospitava.

Dietro, solo l’odore della polvere   misto a quello forte della nafta lasciata dalla corriera.

Così era stata la sua vita, proiettata sempre sul davanti senza mai guardare indietro. Mai.

Solo le giornate di scirocco lo facevano stare male.

Quale caffè poteva essere paragonato a se stesso?

Forse quello dal sapore deciso.  Il cui aroma era dato da un migliaio di molecole capaci di originare vere mappe sensoriali   seconda della tipologia e dei rapporti nei quali sono presenti.

 Una mappa capace di rivelare all’assaggiatore esperto molte cose sull’origine dei grani che hanno composto la miscela e sulla capacità di chi aveva seguito la preparazione.

Giannina, senza mai chiedere, era stata l’unica capace di riconoscere quella miscela che era stata la sua vita. Aveva degustato l’aroma del suo essere in tutte le sue parti e ne aveva conservato il sapore autentico senza mai alterarlo ma, lasciando immutato nel tempo quel sapore dal retrogusto amaro.

Così come nel quotidiano, la sua donna, era stata capace di valorizzare anche il tufo del caffè, utilizzandolo per concimare i vasi del terrazzo, anche nella sua vita gli aveva insegnato ad utilizzarne quello che poteva esserne lo “scarto”, indugiandolo anche con un semplice sguardo alla riflessione o a trasformare un atteggiamento negativo in positivo.

Perché ultimamente aveva distolto i suoi occhi da quelli della moglie?

Se non fosse stato per il frinire intenso delle cicale, il tempo sembrava fermo.

Anche il mare appariva come una distesa immensa, piatta, immobile.

Si sedette su uno scoglio ad assaporare quell’aria che sapeva di alghe, di tranquillità, di morte e si assopì.

Non si rese conto di quanto fosse durata quell’ebbrezza, un minuto, un’ora, una giornata, una vita. Non voleva saperlo.

Con la mano sopra la tasca stringeva nel pugno l’orologio per fermare il tempo che lui non riusciva a fermare.

Era ancora vivo.

Adesso il pensiero gli ritornava alla mente, vivo, carico di angoscia e rabbia.

Privo ormai di domande e stracolmo di risposte.

Davanti agli occhi gli apparve la ragazza, tra un uomo ed una donna, con il dito puntato sulla sua faccia, che lo indicava. L’uomo in divisa che ripeteva parole a lui conosciute ma non per lui; la moglie e i figli in pigiama stretti a formare un unica persona che lo guardavano senza emettere suoni.

Il sudore che gli scorreva freddo lungo la schiena, insieme le sue parole che si confondevano con quelle dei vicini, i suoi occhi che cercavano nella mente le immagini che non trovavano.

Il cuore sembrava scoppiargli nel petto come in quella dannata sera in cui una ragazzina si era presa gioco di lui.

Vecchio stolto, maledetto! Il tuo orgoglio, la tua vanità, la tua sfrenata autostima ti sta presentando il conto.

Adesso sai che solo la saggezza del tempo non può ingannare.

Che l’infanzia è il tempo del gioco, che l’adolescenza della ribellione e della scoperta. Che la gioventù è il tempo per seminare e l’età adulta per raccogliere e conservare per il tempo che stai vivendo ora.

Afferrò una pietra e la scaraventò, sporgendosi in avanti quasi a cadere contro l’immobilità dell’acqua.

Dieci, cento cerchi si propagarono dal centro allargandosi all’infinito, e quel gioco, come il precedente, lo distrasse e gli riportò un po’ di pace, come un giocattolo che appaga il pianto di un   bambino angosciato.

Come per magia si sentì parte integrante, finalmente, del suo paese, della sua gente, che per anni aveva guardato senza vederla, udirla senza ascoltarla. Tutto il dolore della loro disperazione raccontata tra le pareti del suo studio, diventava anche il suo e gli sembrava che anche il peso della sua afflizione venisse distribuito su loro.

Stranamente si sentì leggero, certo ormai che anche un esperienza negativa ha il suo risvolto positivo e che nessun limite si pone all’uomo per permettergli di cambiare.

A quella sensazione anche il suo passo sembrò giovarne. In pochi minuti si ritrovò sotto casa. Immerso ancora nei suoi pensieri, non sentì neanche il tonfo del portone chiudersi alle sue spalle.

Gradino dopo gradino, le gambe sentivano il peso di quella lunga mattinata ma, non il suo cuore. Una nuova speranza sentiva nascergli dentro. Magari domani o domani l’altro avrebbe chiamato la sua Giannina e avrebbe pronunciato quella parola che mai avrebbe immaginato di dire: Perdono.

Dalle cucine degli appartamenti l’odore del caffè a chiusura del pranzo, lo riportò a tutti quei caffè che avevano reso meno fredde notti di veglie, a quelli salati dalle lacrime e a quelli bevuti di corsa.

Gli sembrò di sentire delle voci in fondo al corridoio, forse erano ancora i personaggi del suo gioco che si apprestavano ad uscire dalla mente. Alle voci si accompagnò il rumore di stoviglie e l’odore della salsa, forse gli era rimasta attaccata passando tra le vie del paese.

Una bambina gli venne incontro sorridendo, gli prese la mano e lo condusse nella grande sala. Era difficile capire se stava sognando o se era sveglio. Forse era morto. Tutto era confuso tranne i visi dei suoi figli che ad uno ad uno gli venivano incontro e lo abbracciavano. Ne sentiva il calore sulla pelle e sulle guance bagnate da rivoli salati.  Poi apparve Giannina.  Gli si abbandonò tra le braccia, le sussurrò qualcosa che sapeva di buono, che sapeva di perdono, che sapeva di vero amore. Tutto si sgretolava, i giornali, le chiacchiere, i giorni bui, le notti insonni, tutto si frantumava come uno specchio.

Era stato solo un temporale estivo, violento ma passeggero.

Rimaneva solo reale l’odore del caffè.

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