La visita al cimitero
Alle otto di un caldo mattino, malgrado la stagione autunnale già avanzata, una macchina si fermò davanti il cancello del cimitero vecchio. Ne scese una donnina di piccola statura, avanti con gli anni, stretta in un cappotto grigio, dalle gambe esili coperte da pesanti calze nere che finivano dentro scarpe sformate dal trascorrere del tempo sul suo corpo. Si appoggiò allo sportello, alzò le spalle e allargò il torace e tirò un profondo respiro, come fa un nuotatore prima di un tuffo, poi si aggiustò con una mano tremante una ciocca di capelli che si era staccata dal toupet, piantò i piedi per terra come se volesse concentrare sulle gambe tutte le forze che le sarebbero servite e guardò dritta davanti a se il lungo viale che le si apriva davanti. Gli ingressi al cimitero erano due. Quando per esigenze di spazio, si era allargato verso il lato ovest, era stato creato un secondo ingresso che immetteva in quello che chiamavano il “cimitero nuovo”. Non le piaceva entrare da quel lato. Non sembrava neanche un luogo sacro, era un’esibizione di marmi, di colonne, di vasi enormi con piante esotiche, di edifici tombali giganteschi come se dovessero ospitare famiglie numerose, quando oggi di figli non se ne fanno più. Lettere cesellate in bronzi speciali che luccicavano come gemme, ritratti a figura quasi intera, targhe e targhette con frasi che sapevano tanto di finto, fiori finti e croci altissime che si vedevano da lontano. Una vanteria spropositata, un rincorrersi a chi innalzava il mausoleo più alto. Inseguendo questi pensieri sentiva una certa rabbia nascere dentro, tistiava e il volto le si oscurava. Le veniva in mente la poesia di Totò, La Livella. Se avesse potuto usare quell’arnese, avrebbe appianato tutti quei monumenti eretti dalla stupidità umana che continuava ad ostentare persino sull’ingresso di una tomba il simbolo del “credo” della famiglia, che, se qualcuno può considerare un omaggio al morto, per lei era un oltraggio a quella “livella” che accomuna tutti nel disfacimento dei corpi. Anche la sua cappella avrebbe abbattuto. Portare tutti sulla nuda terra dalla quale provenivamo e dalla quale avremmo fatto ritorno, proprio come quel poeta paisanu che studiava sua nipote che si fece seppellire nudo, avvolto in un lenzuolo, dentro la nuda terra. Per questo preferiva entrare sempre dal vecchio ingresso perché le piaceva sostare qualche minuto davanti la scritta che recitava secca “Fummo come voi, sarete come noi”. Incisa da un antico fabbro su una lastra di ferro, sbiadita e oltreggiata dal tempo che contrastava con l’eternità del luogo. Chissà perché nessuno ha mai pensato di restaurarla – si chiedeva ogni volta la signora. Dopo il secondo respiro che raccoglieva, questa volta, tutta la consapevolezza che un giorno anche lei avrebbe fatto parte del fummo come voi e la constatazione che in fin dei conti non le dispiacesse tanto, abbassò gli occhi e si voltò verso il figlio. Questi conosceva ogni gesto della madre. Spettava ogni volta a lui accompagnarla per la festa dei morti. Arrivavano presto, perchè più tardi quelle vie si sarebbero trasformate in una piazza con mille vocii, ostentazione, parole inutili e poco cordoglio, poco rispetto, poco silenzio. E lei aveva tanto bisogno del silenzio che solo in quei luoghi ti parla di quelle verità che nessuno vuol sentire. Dal portabagagli tirò fuori un sacchetto pieno di lumini, di quelli moderni a pila, perché durano di più, non come quelli di cera che appena giri l’angolo un leggero soffio di vento spegne per lasciare ddri tompiceddri a lu scuru, sordi persi, invece queste durano anche mesi. Viva il progresso, pensò soddisfatta dell’acquisto. Poi nell’altro braccio sistemò un bel fascio di garofani e margherite di vari colori. Nessuno doveva aiutarla ad alleggerire i pesi del sacchetto e dei fiori, voleva fare tutto da sola, perchè per fare certe cose “devi essere da sola”!. Varcò l’ingresso e dopo il segno della croce e dopo aver recitato il primo “eterno riposo dona a….”, cominciò a salire lentamente verso la perte alta del cimitero dove si trovava la cappella. Il figlio la seguiva con il bidone dell’acqua. Quello proprio non ce la faceva a portarlo. La visita al cimitero durava ore perché, quel luogo non era come un camposanto di città, dove entri e vai dritto dai tuoi cari, buttando lo sguardo qui e la su fotografie di volti sconosciuti, ca mancu ti talianu. Qui tutto era diverso. Tutte le foto ti parlavano, in silenzio, ma ti parlavano. Con quei visi tu avevi un tempo parlato, riso. Forse anche pianto, litigato. Tutti conoscevi e ti conoscevano. Quelle non erano solo immagini su lapidi ingiallite, ma erano Peppi, Ninu, Cuncetta, Assunta, Sciaveriu. Ad ogni passo lento seguiva il movimento della testa che girava da destra a sinistra, dal basso in alto, sulle tombe. A tutti diceva bisbigliando poi “passu e mi fermu”, perché la prima visita era per i suoi cari, una forma di rispetto; s’avvissiru siddriatu se da loro, fosse andata alla fine, visto che la cappella si trovava molto più in alto. Il sole era cocente ed il cappotto grigio cominciava a darle fastidio. Lei avrebbe messo il soprabito nero, anzi tutta di nero si sarebbe vestita per l’occasione e per il resto degli anni che le restavano. Ma la nuora ed i nipoti avevano tanto insistito per togliere il lutto. “Ssa si lu leva ca pari chiu vecchia , tantu nuddru ritorna”. “I giovani d’oggi non conoscono rispetto, a iddri ci pari che il nero uno lo indossa per le persone ca sparlanu”. Seguiva il suo pensiero imbronciando le labbra. -“Io volevo tenerlo per testimoniare a me stessa la grande assenza che ormai ombreggia il mio cuore e nessun colore può più ridarmi la gioia di un abbraccio, un conforto, uno sguardo come quannu c’era lu to cumpagnu.” Sentì un nodo chiuderle la gola e gli occhi riempirsi di lacrime, doveva stare attenta agli astati d’animo , tenerli a bada altrimenti la pressione avrebbe fatto di testa e le prediche del figlio, sorbite per tutto il tragitto, sarebbero andate a farsi benedire! beddramatri cu lu senti! Tranquilla stai, cominciò a dirsi, recitando…….Gesù mio perdona le nostre colpe………fuoco dell’inferno……….della tua misericordia. Ogni tanto, però, non poteva fare a meno di soffermarsi davanti qualche loculo attratta dalle lapidi appena poste e dalle foto ancora nitide e smaglianti. Si avvicinava e studiava i tratti del viso per vederne l’appartenenza, poi si soffermava sul cognome della famiglia e sull’anno di nascita e il più delle volte rattristata girandosi verso il figlio esclamava Figliuzzu addrevu era. Sfilava una margherita dal mazzo e la posava con delicatezza davanti la fotografia. E così per tutto il percorso, affievolendo sempre di più il peso dei fiori. Stremata dalla salita e dal peso dei pensieri, imboccò la via San Domenico. Raggiunse la tomba di famiglia. Guardò la cappella dalla Croce di marmo che troneggiava dall’alto, fino alla soglia dell’ingresso, per vedere se il tempo trascorso dall’ultima visita avesse procurato danni al granito. All’apertura della porticina di ferro battuto, corroso dalla ruggine, un’aria stantia e pungente inondò le sue narici. Per terra giacevano insetti morti e foglie rinsecchite, che nelle giornate ventose passavano attraverso i piccoli spazi sotto la porta, a rimarcare ancora di più quel senso di morte. Poi ne varcò la soglia. Subito il suo sguardo si posò sulla fotografia del marito. Senza spostarla, si liberò le mani dai lumini e dai fiori, stese il braccio e ne accarezzò il viso più volte, poi alzandosi sulle punte posò le sue labbra sulle sue, che erano tiepide per via del sole che filtrando dalla porta ne riscaldava la ceramica e la sbiadiva. Intanto, il figlio aveva preso a spazzare l’abitacolo. Quantu cosi ta cuntari gioia mè , le lacrime cominciarono a scendere lente percorrendo tutti i solchi delle guance- lu sta vidennu comu criscinu l ‘addrevi? Simona si lauriò, appi belli voti e so patri ci fici na bella festa e chi riala aviatu abbidiri. E Lorenzu, ti l’avia dittu, ci penzi? Ca chistannu si maritava ora sinni a stari luntanu….ummi ricordu …ma luntanu…pi la crisi. Cà travagliu un ci né. Poi, distolse lo sguardo dalla lapide e lo posò sulla sua mano che aveva cominciato a strofinare le lettere di rame annerite, come se non volesse fare vedere i suoi occhi, per non rattristarlo, per quello che gli avrebbe comunicato. “Teresa è stata male, quel brutto male, ora sta facennu la terapia – gli occhi ritornarono sulla foto – “prega tu lu Signiruzzu ca troppu cosi tinti ni lu munnu ci su”. Il figlio seguiva i pensieri della madre osservando i cambiamenti che avvenivano sul suo volto, la labbra che si serravano, gli occhi che si socchiudevano, la fronte che si corrugava. La guardava e si commuoveva. Uscì sulla strada per fumare. La piccola donna tolse la tela di lino, ingrigita dalla polvere, che copriva l’altare e la sostituì con un’altra candida di bucato il cui profumo si mischiò con quello delle margherite. La pose sul marmo e la distese con cura stirandola con le mani. Poi vi adagiò sopra i vasi con i fiori freschi e al centro il grande crocifisso. Né baciò i piedi e non il viso, come a sottolineare che di quello era degna. Uscì dalla tasca il rosario e si accasciò su una minuscola sedia di legno di bivona. Sgranava velocemente il rosario tra le dita storte dall’artrite, aprendo e chiudendo la bocca senza emettere, però nessun suono. Poi lo sguardo si alzò verso le foto dei suoi genitori. Da quanto tempo erano morti e da allora quanto altro tempo era trascorso. Anche se si diventa adulti, grandi e vecchi, il bisogno di quell’ affetto non viene mai meno. Le venne il desiderio di pronunciare la parola mamma e lo fece con un filo di voce che somigliava a quello di una bambina appena sveglia. Le sembrò di sentire l’odore della pelle di sua madre, chiuse gli occhi e annusò l’aria e un’ondata di visi, voci e gesti inondò la sua mente, addolcendone subito il viso. Il rosario le scivolò dalle mani e cadde a terra svegliandola dal quel momento di profonda quiete dell’anima. Intanto da fuori cominciava ad arrivare il brusio dei visitatori. Il figlio le fece cenno che era ora di andare.