Il castello di Caccamo, tra storia e leggenda

IL CASTELLO DI CACCAMO TRA STORIA E LEGGENDA Un’antica leggenda ruota intorno alla storia millenaria del castello di Caccamo, nel palermitano, il più grande della Sicilia. “Beddi cavuli ci sunnu a Picciarruni” (Bei cavoli ci sono a Pizzarrone), frase ancora ricorrente quando i caccamesi si mostrano poco interessati ai contenuti di un discorso e vogliono da esso sviare. Una frase apparentemente senza senso, ma che trova una sua giustificazione in una leggenda che si intreccia con la storia affascinante del castello di Caccamo. Varcato il primo ingresso del maniero, su un muro seicentesco, si presenta alla vista una lapide non imponente per grandezza ma notevole per il suo significato. Nella lapide sono infatti visibili un basso rilievo che rappresenta una mano che tiene una bilancia e la scritta D.I.V.Q.I.T., la sigla cioè del versetto biblico : “Diligite Iustitiam Vos Qui Iudicatis Terram” (amate la giustizia voi che la giudicate sulla terra). Il monito era rivolto a coloro i quali avevano facoltà di esercitare la bassa e l’alta giustizia (il potere di amministrare la giustizia spicciola ed anche quello di condannare a morte), facoltà concessa nel 1430 dal re di Sicilia, Alfonso il Magnanimo, al signore di Caccamo Bernardo Giovanni Cabrera. Un’antica leggenda narra che un uomo del popolo, reo di avere attentato alla vita del signore del castello e per questo condannato a morte, dopo una lunga detenzione nelle buie ed anguste prigioni del castello, venuto il giorno dell’impiccagione, venne condotto sull’ampio terrazzo dove si svolgevano le esecuzioni. Il malcapitato fu accompagnato sino all’arco da dove pendeva la corda e fu sistemato sopra una panchetta di legno che sarebbe stata allontanata al momento giusto. Il comandante delle guardie, che già si era intrattenuto senza risultato in dolorose torture inflitte al condannato, intimò per l’ultima volta all’uomo di dire i nomi dei suoi complici, ma egli non parlò. Il gendarme insistette e disse :”Parla canaglia, oramai devi morire, dammi i nomi dei tuoi complici e almeno Dio avrà pietà di te”. L’uomo, forse stanco della posizione in cui lo avevano messo e innervosito dalla presenza degli aristocratici e degli ecclesiastici che attendevano lo spettacolo della sua morte, volse lo sguardo ai campi coltivati della contrada Pizzarrone, ben visibili dal castello, e, tornando a guardare negli occhi il suo aguzzino, gridò : “Beddi cavuli ci sunnu a Picciarruni”. Il gendarme infuriato diede un calcio alla panchetta e il riottoso condannato trovò la morte. Quelle parole sono rimaste nella memoria del popolo e, dopo secoli, i caccamesi, infastiditi dalle domande insistenti di qualcuno e per troncarne il discorso, dicono ancora : “Beddi cavuli ci sunnu a Picciarruni”.

di Giuseppe La Rosa

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