Fino a poco tempo fa era ancora li, in un angolo del camerino della mia vecchia casa e quando c’era qualcosa da riparare si ricorreva a lui, testimone antico di un mestiere. Oggi è scomparso, come i tanti mestieri che ci hanno accompagnato fino a qualche decennio fa.Un piccolo mobile in legno quadrato, con un unico sportellino, con il pianobordato da una fascia di alluminio rialzata a bella posta per evitare che cadessero gli oggetti: lu bancareddru, così lo chiamavamo, era il banco di lavoro di mio nonno Nino, di mestiere scarparu.
Dal racconto di mia nonna, si evinceva che era il pezzo più importante della sua bottega poiché conteneva tutto l’occorrente di lu scarparu: la furma di ferru, dalla più grande alla più piccola a secondo il numero della scarpa da creare o da riparare, il martello, le tenaglie, la lesina, lu trincettu, lo spago, il grasso, i chiodi e li simicci.
Appoggiato ad una parete, stava un piccolo scaffale contente le scarpe
riparate, allineate e lucidate, sul pavimento stavano, invece,
ammucchiate, quelle da riparare: grandi scarponi usurati dal tempo e
dal lavoro, dalle cui suole cadevano pezzi di terra mista a erba
secca, scarpe di bambini logorate, con le suole bucate dal gioco, le
punte tagliate per favorire la crescita del piede, scarpe di massaie
sformate da piedi gonfi e dai calli e scarpette da signorina vezzose e
in buono stato. Appese alle pareti forme di piedi di legno di diversa
grandezza, pezze di cuoio color caramello e nero e tomaie già cucite
per le nuove creazioni.Al centro di quella piccola stanza, senza finestra e con un unico
ingresso, lì dietro lu bancareddru e di un fasdali cerato e macchiato,
mio Nonno, papanì. Con gli occhi semichiusi per ripararsi dal fumo
della sigaretta che gli pendeva, sempre, da un lato della bocca,
batteva a ritmo li petti di la scarpa infilata nella forma, prendeva
la misura della suola malandata, tagliava il cuoio appoggiandoselo al
petto con il trincetto, lo poggiava sulla scarpa intriso di colla
artiglio con le dita ingiallite dalla nicotina, ancora ora ne sento il
profumo e lo inchiodava.Io provengo da una famiglia di artigiani, e conosco bene il mondo dei
mestieri. Mio padre, Vincenzo,.era Sartu, e la sua bottega era
nella Salita Regina Elena. Ma era anche un musicista e, con il suo gruppo
suonava per le serenate, per le feste di matrimoni e per varie
ricorrenze. Il suo lavoro lo ricordo grazie alle fotografie perché,
quando io compii 6 anni, lui migrò in città per fare l’operaio. Già
allora, era il 1966, l’arrivo della confezione mise in crisi il suo
mestiere e lui fu costretto, a malincuore -noi sappiamo quanto- a
lasciare il paese. Ma mai il suo vero lavoro.Ha cucito ancora per
anni, ha accorciato pantaloni e maniche di giacca a parenti, amici,
paesani e cittadini. Ha continuato a suonare la chitarra con gli amici
nelle serate d’estate davanti la porta o nei pomeriggi invernali per
far trascorrere le ore.
Tra le sue cose e i suoi arnesi di lavoro io e i miei fratelli abbiamo
giocato e siamo cresciuti e ancora ora qualcosa è presente nelle
nostre case come pezzo d’antiquariato.Così era la bottega di un artigiano, povera di oggetti ma ricca di
mani laboriose e di idee, con il mestiere si campava la propria
famiglia e si aiutavano quelle dei figli. Noi oggi con lavori più
sicuri e redditizi riusciamo a malapena ad arrivare a fine mese. Erano
altri tempi.Il futuro si costruiva sul mestiere: le ragazzine si mandavano “a
sartina” o ad apprendere l’arte del ricamo, i maschi in bottega.Li putii dei mastri, con il sorgere del sole aprivano le porte e i
suoni e gli odori provenienti dai miseri abitacoli si confondevano
inebriando le strade del paese:dalla bottega di fabbro-maniscalco di lu zi Duvicu Alessi nella Salita
Regina Elena, il martellio sordo e cadenzato sull’incudine e
l’odore del ferro infuocato nella fornace, o il nitrito di na mula
mentre le si cambiava lo zoccolo, si confondevano con quello della
lavorazione della ricotta che usciva dalla putia di fronte di la Bursillina;…..
scendendo verso li casotti si sentiva l’odore del cuoio e della colla
di la putia di Nino Sazizza, lu scarparu, dove non mancava mai anche
il suono di una chitarra o di un mandolino, che si intrecciava con quello
del legno e dello stridulo rumore della sega della falegnameria
di Ciccu D’Anna e della colonia da barba di la putia di varberi di lu
zi Giammattista Ingravidi, ricca sempre di ragazzini con la voglia di
imparare il mestiere che, con mano inesperte, distribuivano la schiuma
da barba non solo sui visi dei malcapitati!!!
Più giù si sentivano le risatine e i rimproveri di Nona, la sarta,
alle apprendiste sempre pronte a fare qualche sparlatina.
Scandivano le ore del giorno gli Antichi Mestieri ormai estinti, e in
ogni putia non c’era passante ca un mpinciva per chiacchierare
dell’ultimo avvenimento che aveva destato curiosità.Non mancava a tarda mattinata il suono di qualche straniu chi vanniava
la mercanzia o il suono incessante di lu tammurinu di Masciu Masi Paci
o di Peppi Cuppinu che annunziava qualche lieta notizia o qualche
comunicato del sindaco o di un commerciante o ancora di gente che
aveva smarrito qualcosa, e di solito si trattava di na crapa o di na
pecura.
Le strade, specie durante la calura estiva. erano percorse
dall’accalappiacani, anche loro facevano parte della schiera degli
artigiani del tempo. Con degli strani arnesi lottavano contro il
dimenarsi delle povere bestiole, i guaiti strazianti si sentivano per
tutto il paese, noi ragazzini non volevamo sicuramente sapere dove lu
zi Sarbaturi Varnaccina li avrebbe portati a finire le loro
sofferenze.
Nel tardo pomeriggio, dopo avere gustato una granita di Radosta, che
passava con il suo trabiccolo contenente il pozzetto affondato nel
ghiaccio o una bibita al limone nella piccola bottiglia il cui tappo
era formato da una pallina, ci si poteva piazzare lungo la discesa
Convento per ascoltare Ciccu Busacca di mestiere cantastorie.
Montava sul suo camioncino il trespolo su cui
faceva cadere i pannelli disegnati, l’altoparlante collegato al
microfono e con voce cadenzata aiutandosi con un bastone per indicare
i vari fotogrammi, iniziava la sua affascinante storia. Da lontano si
vedeva una macchia scura di teste coperte da coppole, ferme,
allineate, attente.Con il calare della sera, prima di fare ritorno a casa, qualcuno
poteva sostare per un bicchiere di vino e un ultima chiacchierata ni
lu zi Ulissi che di mestiere faceva l’Oste.Anche
nella notte i mestieri non cessavano: le doglie di una
partoriente facevano accorrere di gran corsa Donna Flavia o Donna
Lauretta, di mestiere mammane. Se poi qualcuno stava male si poteva
ricorrere a la za Taniddra la Ramunna per un salasso con le
sanguisughe, o se il malanno era dovuto al troppo sole a la za
Ciccina la rumè , o se si trattava di una storta si chiamava la Za
Pippina la Catolica o a lu Zi Lampasona.
Ognuno aveva un tesoro tra le mani, UN MESTIERE; perché, la manualità
e l’artigianato regnavano una volta, come oggi l’industria nei tempi
moderni. Molti mestieri sono del tutto scomparsi o divenuti rari,
soppiantati dal progresso e dall’industrializzazione, dalla catena di
montaggio e dalla tecnologia più sofisticata,. o da abitudini di vita
e costumi d’importazione straniera, da consumi diversi.La maggiorparte dei giovani d’oggi non ha mai conosciuto questa realtà.Anche se oggi si organizzano gite nelle aziende, casearie o vinicole o
oleifici, per fare vedere la lavorazione di alcuni prodotti, i ragazzi
non possono respirare il fascino che le botteghe degli artigiani, dai
visi sporchi e le mani ruvide e callose, un tempo esprimevano,
possono solo vedere luoghi freddi dove l’acciaio impera insieme a
camici e guanti sterili.Il passato è patrimonio di memorie da ricordare. Il come eravamo si
tinge di nostalgia o di sorridente sorpresa nel notare le mutazioni
che il tempo ha inciso nel nostro costume e nelle nostre abitudini.Oggi questo quadro dalle tinte sbiadite rimane circoscritto fra le
pareti di un vecchio museo, vita di ieri, con i suoi arnesi, i suoi
costumi, testimonianza della evoluzione del nostro paese e dei nostri
paesani.Mestieri cresciuti nel faticoso provare e riprovare , migliorando con
sapienza e precisione ogni cosa, per arrivare all’arte finale:la
creazione di una cosa, come un mistero alla fine rivelato.Oggi una cosa che si rompe viene buttata, nessuno pensa che potrebbe
essere portata alla funzionalità originale, tutto è destinato al
consumo, e l’artigianato rimane relegato in qualche piccola bottega
nascosta agli sguardi, solo nell’ esclusivo interesse turistico.A memoria voglio ricordare lavoratori, grandi artigiani
che ci hanno formato e forse regalato parte di quel patrimonio che
oggi è il nostro presente:Lavorazione cesti: Zi Binnardu ValdaLavorazione di cuttunini (particolari coperte che si davano per dote):
Carmela la marineddraPanneri (venditore di stoffe): Turiddru Giannuni e Turiddru CruciLavorazioni di formaggi: Rosa Marino-Gaetana CappellanoRuggiari: Vitale-CilonaSarte pi fimmini: Assunta La Curti – Francesca Panepinto – Za
Pippineddra Di RosaFallignami: Nino Sanzeri – Ninu CirauluAlimentari: Don Antò Salviola – Masciu Calò (anche scarparu) – Peppi
Alongi – Tanu MarinuFirrara e maniscalchi: Ninu Arcuri – Ninu Mamo – Giuseppe Sciurba –
Nofriu RoccaforteScarpara: Turiddru Vulpi – Vitu Forti –Sarti pi masculi: Binidittu Marchisi – Duvicu Tagliarinu – Ninu
d’Angilu – Mimiddru Guastella – Mircuriu Campisi – Gilormu CutruniLavorazione della latta come toncini: RiggiuSinsali: Stefanu ChiazzaMulini: Flli Martorana – Ciccu GaglianuPastai: Giuseppe Giambrone – Di Maria Giuseppe – La ConaVardiddraru (lavorazione di tuuto l’occorrente che serviva al mulo
selle, canestri….: Turiddru SanzeriVarberi: Tanu Barbera – Mattè Barbera – Angilu Cartagiruni – Pinu MattalianuCarrozze (per il trasporto di passeggeri dalla stazione al paese e
viceversa): Montalbano – Minicu l’orbu.
Magliaia La SciarrottaE poi non mancavano le categorie dei zolfatari……………………………..A parte quei pochi impiegati comunali e quelli che si dedicavano alla
terra o alla pastorizia, tutti gli altri avevano un mestiere, poi ad
un tratto presi dal desiderio di forti guadagni si è spezzato quel
segreto che si tramandava di padre in figlio, e con esso a poco a
poco le varie botteghe si sono chiuse conservando all’interno soltanto
alcuni arnesi arrugginiti e qualche calendario ingiallito.Pochi mestieri sono rimasti a testimonianza di quel tempo, ma che
esistono ancora e chissà se oggi visto la mancanza di lavoro non si
ritorni al desiderio della manualità, alla voglia di creare, all’arte
pura ad una vita più semplice…………..
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Angela Chiazza