RICORDI (2) – Angela Chiazza

 

Il paesaggio invernale. Così diverso da quello appena passato… così vario. Sfumature di verde che si inseguono e si alternano a tratti di scuro marrone. Campi arati a campi incolti dove i fiori scarlatti della sulla fanno la prima comparsa. Vigneti privi di frutto e ulivi ancora da alleggerire, ogni tanto un nuovo specchio d’acqua.
Quante volte ho percorso questa strada che dalla mia vita attuale mi riporta al mio passato.
La strada, sempre uguale, a causa di qualche curva, dà alla mia testa un leggero senso di leggerezza e di  vertigine.
La radio emette strani suoni confusi; in lontananza, addossati ai piedi di qualche collina o adagiati in una valle, fanno capolino paesi; foglie morte giocano con il vento mentre stormi di uccelli si rincorrono formando le ultime parabole. Dalla strada grigia i miei occhi si staccano e si chiudono, per riaprirsi nella mia mente sulla strada della mia infanzia.
Erano ricche di porte spalancate, quelle strade, e di voci, di odore di azzolu di biancheria stesa al asciugare, di festa di colori ma anche di pianti e di silenzi durante le ore notturne scandite dai latrati di cani e dall’orologio della piazza.
Si vestivano secondo le stagioni e secondi le occasioni, le mie strade. E i ricordi sono tanti, fanno a pugni nella mia testa e, come una sfilata, ad uno ad uno ritornano: siamo in autunno, la festa dei morti: ci si alzava presto quella mattina, forse non si dormiva, anche per la paura dei parenti morti che salivano dalla loro ultima dimora per portarci giocattoli, vestiti, castagni caliati, turtigliuna e tetù. Per le scale, con mio fratello, non guardavamo neanche i gradini e poi di corsa in sala da pranzo. La tavola era lì come ogni anno,  piena, un paniere accanto all’altro e mia madre e mia nonna ci annunciavano da quale antenato defunto arrivassero i doni. Poi per la strada a fare vedere agli amici cosa aveva fruttato la nostra bontà!!
E ancora nella strada. E’ carnevale,  mascherati, dietro al portamaschere attendiamo la frase tipica per entrare nelle case, pirmittiti ca trasi nà mascara, e alla risposta positiva dietro la porta apparivano mani generose con insalatiere colme di sfinci e cavateddri.
Un ricordo mi ruba un sorriso, con il primo freddo venivano fuori i geloni , specialmente alle dita dei piedi e le nonne, come unico rimedio, ci mandavano a bussare nelle case vicine e alla voce “cu è?” senza farci riconoscere dovevamo gridare li rosuli e scappare di corsa e la strada si apriva a noi complice.
E la strada ritorna ancora….., ti vitti!  Sguarra!……la strada per noi era il gioco…..ammucciareddri, lu zuppareddru, lu monopattinu…… gioco diventava tutto, il nocciolo dell’albicocca si trasformava in  un fischietto dopo che, per interi pomeriggi, si grattava, per privarlo del seme, su una pietra ammorbidendolo con lo saliva. Fare di una scala ornata di margherite un palco di Sanremo e canticchiare a squarciagola era un gioco; dal nulla si creava una banda e allora le cucine venivano prese d’assalto e tutti con in mano 2 coperchi di alluminio giravamo per il paese dal san gaitano a lu stazzuni, da lu stazzuni a lu canaleddru,da lu di la filicia  a la cruci……oltre non si poteva perché oltre quel confine c’era la regina chianciula che rubava i bambini disobbedienti… o a qualche anziana che, infastidita, ti  tirava addosso mali paroli e nà facilata d’acqua e qui intervenivano le mamme in difesa dei figli e la strada si trasformava in un teatro con il suo pubblico interessato chi c’è chi succidi cu sti vuci.
Noi eravamo la strada e la strada era tutta nostra senza limiti.
Prima vestite di bianchi ciottoli, scivolosi e difficili agli zoccoli dei cavalli che la mattina e all’imbrunire la percorrevano, lasciando a terra fumante e caldo letame che si insinuava tra le pietre e stava lì fino alla prima tempesta , ora sono di nero catrame. Emanavano odori di fieno proveniente da qualche porta spalancata di una vecchia stalla, e di cibo sul fuoco già alle prime luci. L’odore d’inverno era quello della pioggia che arrivava prima piano e leggera, e tutti al centro della strada con le bocche aperte sotto il cielo grigio a centrare le gocce sempre più pesanti, trasi ca ti vagni, curri cà lampia dalle case ad eco  si rincorrevano i richiami delle mamme. E quando cadeva la grandine o un po’ di nevischio era assicurato quello che oggi si chiama sorbetto. Nelle giornate particolarmente uggiose i nostri nasi erano incollati ai vetri e gli occhi fissi al cielo per cercare d’intravedere un raggio di pallido sole che ci permetteva di ritornare incappucciati in strada. In queste giornate unico posto di aggregazione rimaneva la sacrestia  e l’intrattenimento di padre Ciaravella.
A Natale, la strada era il suono della ciarameddra, erano i toncini accesi dalle nonne davanti l’uscio per scaldarsi al tramonto.
A maggio la strada si vestiva di coperte e lenzuoli di lino ricamate, di vasi di fiori, di canti, di recite di rosari ……era il mese dedicato alla Madonna. In quei giorni passava anche un signore con una statuina di Maria piena di nastri colorati  o con un Bambinello con le veste porpora ricamata d’oro, “lu bammineddru di praga” , e noi allungavamo le mani per toccarli e con gesti copiati mandavamo ripetuti baci.

E poi scoppiava l’estate che, insieme al suo calore, portava con sé anche i suoi odori: il pomodoro steso al sole ad asciugare, le mandorle appena scrucchiulate dalle donne di famiglia o addruvati, stese anch’esse, preda delle nostre mani e delle nostre tasche… e correre  correre dietro le imprecazioni per andarle a mangiare a la strata di sutta.
In quella stagione, le case si riempivano di lingue forestiere e le strade di enormi macchine straniere, dai sedili foderati di pelliccia sintetica dai colori sgarcianti. Erano gli emigranti, carichi di caffè e tavolette di cioccolata, tuvagliuna, mappini e linzola che elargivano a parenti e vicinato. Non c’era casa che non avesse stranii, tavole bandite e letti improvvisati. Noi cercavamo di stringere amicizia con quei  bambini dai tagli dei capelli e dalle scarpe strane con le uniche parole che conoscevamo: anche con quelli provenienti dall’Inghilterra o dalla Germania o da qualche altro paese, il primo approccio era sempre come t’appelle toi?, Poi la conversazione era solo fatta di gesti e sorrisi, il linguaggio universale dei bambini.,che quando andavano via lasciavano, oltre ad un pezzo di carta con l’indirizzo, anche un gran vuoto.
La mattina, in estate, la colazione era rigorosamente pani cu la granita, mangiata mentre la strada si riempiva di suoni: muli carichi di ceste con la frutta non bellissima allo sguardo ma buonissima al sapore, rigorosamente assaggiata prima dell’acquisto incuranti del vanto del venditore; poi gli ambulanti la  percorrevano in tutte le ore del giorno: quello con i casalinghi,  quello con il corredo, quello che misurava la vista e provvedeva subito agli occhiali,….tutti lasciavano le loro faccende perché c’era lu straniu ca vanniava,  chi avi? , chi binni?
La giornata era lunghissima e le case si allungavano nella strada. Dal pomeriggio, davanti la porta, seduti sino a sera si attivavano tutti e cinque i sensi: le mani lavoravano all’uncinetto, le orecchie attentissime a tutti i suoni e le parole, gli occhi abbassati sul lavoro non si facevano mancare chi passava, il naso captava qualsiasi odore gradevole e sgradevole e la lingua oltre che ad assaporare qualche frutto di stagione o qualche prelibatezza, non si stancava mai di battere come le aste sul tamburo. Erano i momenti in cui tutti i segreti venivano svelati con l’innocenza che rimanessero taciuti per sempre e la certezza che anche Dio non imputava a peccato quell’ora di sparlamento concessa all’uomo
come mezzo di svago!

Con il passare degli anni cambiava la nostra età e la strada si adattava alla nostra crescita. Non più giochi, ma ore a leggere fotoromanzi o ad imparare a ricamare; i ragazzi allungavano i pantaloni e dalla strada si trasferivano nella piazza o al bigliardino di lu zi mimiddru. Iniziavano i primi batticuori e per tutti le strade diventavano una, la più importante,  quella che portava dalla Matrice al Carmine, dove, oltre al debutto nel mondo dei grandi, nascevano le nostre prime emozioni.
L’estate erano le feste e le strade si vestivano di archi di luci colorate, erano le serenate sotto il balcone di una futura sposa o di una ragazza venuta forestiera che faceva stragi di cuore. Erano i primi balli organizzati in qualche casa disabitata o in una Sala per cerimonie dopo il banchetto di un matrimonio; erano li tavuliddri in case di campagna; erano le ore seduti in un bar a mangiare semenza e nuciddri o seduti sui gradini della scalinata fino all’alba a parlare e ridere di niente.
I miei occhi tornano sulle prime case, sul campanile della Matrice, e percorro la via che mi porta al cuore del paese, non più le stesse strade, non più gli stessi odori, non più gli stessi colori ma sempre la stessa emozione.

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