RICORDI – Angela Chiazza

Nulla mi è più piacevole che stare sdraiata nella penombra della stanza, nelle ore in cui la calura estiva è al suo culmine. Gli occhi fissi sui movimenti della tenda bianca di lino e pizzo, ricamata da mia nonna quando ancora mi stringevo al seno di mia madre. L’alito di vento che gioca con la tela, la gonfia spingendola in avanti per poi ritornare indietro e ricominciare lo stesso gioco; assomiglia alle onde del mare quando s’infrangono sulla battigia  per poi ritornare lentamente indietro, in un movimento uguale e perpetuo che rilassa il mio corpo e la mia mente. Ripenso a mia nonna, sempre uguale a qualunque età,  i capelli ricci e bianchi tirati in una crocchia sulla nuca, fini e morbidi come la seta. La mattina, quando li pettinava, raccoglieva quelli rimasti nel pettine,  li metteva in un sacchetto di stoffa, li pesava con le mani nell’attesa di barattarli con qualche cianfrusaglia con l’omino che passava a fine mese con la motoape piena colma degli oggetti più svariati, dal lampadario al set di pentole, dalla coperta di ciniglia alla bambola da mettere al centro del letto “intoccabile” dai bambini, la più ambita. Ogni mattina le chiedevo se il peso corrispondesse allo scambio, lei mi sorrideva dicendomi di pazientare ancora un po’ e riponeva il soffice sacchetto dietro lo specchio. La rivedo nella mia mente,  nel suo vestito nero a piccoli fiori provenzali, insieme a mia madre sedute una di fronte all’altra, davanti alla finestra appena aperta per fare entrare quel poco di luce che bastasse loro a lavorare senza interrompere il nostro sonno. Sento ancora lo sferruzzare di li ugliola o dell’ago che buca la tela incastrata e tesa nel telaio, io le guardavo da sotto la pesante cuttunina, avvinghiata a mio fratello aspettando che la luce del giorno diventasse più forte. Intanto il loro bisbiglio e il rumore degli zoccoli dei muli sui ciotoli dell’acchianata ci faceva ancora da ninna nanna.

Quanto tempo è passato.

 Mia nonna, mammacuncè, chiamata mamma con il suo nome a seguire, perché così si chiamavano i nonni nella mia infanzia . A volte guardo le mie mani e rivedo le sue, guardo alla mia vita e rivedo un po’ la sua. Forse che sia questa una forma di reincarnazione, fatta di somiglianze e ripetuti gesti?

Mia nonna, chissà quanta fatica le era costata ricamare la mia coperta, ad ogni punto immaginava il mio destino e la sua tristezza per non poterlo vedere, consapevole dei suoi anni. Pensava al mio futuro, ancora così lontano e imprevedibile nella mia mente di  bambina, io me ne accorgevo dai risolini che faceva da dietro gli occhiali e dalle smorfie della bocca. Ad ogni punto difficile, e a ogni pensiero infelice, tirava fuori la lingua pronta a spingerla con più forza in aiuto alla trama e ai pensieri.

La dote, s’incominciava a prepararla quando si giocava ancora con la corda. Io odiavo con tutta me stessa anche la sola parola “DOTE”, mi sembrava una tradizione malaugurante verso noi piccole, ingenue bambine. E se poi non mi fossi sposata? Tutto quel lavoro? Tutta quella fatica, e il sacrificio economico non indifferente. Già  prendevo confidenza con i primi sensi di colpa.

Respiro l’aria dei ricordi:

Sopra lo stipetto c’erano accumulati pile di riviste “mani di fata”, “l’Ago d’Oro”,” i segreti dell’uncinetto”. Le pagine erano evidenziate con pieghe e pieghette,  tanto da rendere alcune foto appena visibili. Fogli gualciti dal tempo e dalle numerose dita che l’ avevano sfogliati. Nei lunghi pomeriggi invernali si parlava solo di punti, trame, tovaglie e lenzuoli e poi si tirava fuori una grossa scatola cu li campiuna da copiare, ridisegnare e reinventare durante l’estate, quando le belle giornate avrebbero trasformato in terrazze-laboratori le vie del paese. Ricordo quando arrivava  voce di qualche puntina straordinaria elaborata da qualche mano di donna di un altro paese, mia nonna e mia madre andavano in fibrillazione e non c’era quiete e rizzettu se non si arrivava ad avere quella puntina che avrebbe reso la mia dote inestimabile  ed esclusiva.

Poi con i campioni ormai fuori moda ci si facevano i vestiti alle bambole: quanta fantasia allora si sprigionava dalle teste di noi bambine.

Adesso non entra più aria e la tenda sta dritta quasi a mostrare tutta la sua bellezza. Anche i miei ricordi si fermano e la sua immobilità adesso e anche la mia. Guardo la cassapanca che contiene tutto quel lavoro, tutte quelle trame intrise di amore e dolci ricordi. Mi sono sposata, la fatica non è andata persa e i sensi di colpa si sono affievoliti,  non ho usato tutta la DOTE, ma tutte quelle tovaglie, tutte quelle lenzuola, tutti quei centrini, in fondo la cascia sprigionano un odore che mai andrà via dalle mie narici, tutto è scolpito nella mia mente. Sembrano ricordi d’altri tempi, eppure sono passati così pochi anni. Quante cose si sono perse le nuove generazioni, i miei figli.

 

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