Alessio di Giovanni e il fiume della memoria

Ognuno di noi  è espressione del suo tempo e del suo spazio e porta indelebili i segni dell’appartenenza ai luoghi, ai modi di sentire della gente presso cui è nato o s’è formato e finisce sempre col rievocarli, addirittura  a mitizzarli, se costretto a separarsene.

Il Di Giovanni non fa eccezione e trascorse un’infanzia e una giovinezza serene in quei luoghi, che divennero ben presto tropoi della sua attività di narratore e poeta.

Li conosceva bene perché percorsi in lungo e in largo assieme a contadini dei quali apprezzava la parlata vernacolare, schietta e musicale, e da cui sentiva raccontare le storie che poi avrebbe ripreso nelle sue composizioni.

Erano quelle stesse storie, quegli stessi racconti e miti, quelle notizie confuse tra storia e leggenda che suo padre, Gaetano, trascriveva e che lo incuriosirono bambino. Tutti argomenti che rendono uniforme  la cultura dei borghi che insistono nella medesima vallata, che il Di Giovanni battezzò “Vaplatani” per indicare quell’immensa distesa di latifondi che si estende dalle montagne cilestrine di Bivona fino all’azzurro mare di Sciacca. (1)

In quei luoghi, in quei posti è l’origine della sua poetica.


Scrive in “Come andò che divenni drammaturgo”: “…le prime cose che attirarono la mia attenzione, quando giunsi all’età del discernimento, furono, invece, quella veduta, recondita e pensosa, di monti, di valli, di pianure meste e solinghe” e, continuando: “La mia arte…deve la sua impronta prevalentemente drammatica a quella profonda traccia che il mezzo, in cui si sono passati gli anni della fanciullezza, lascia nel nostro animo, segnandolo d’un particolare sigillo che gli fa vedere la natura e la vita in un modo piuttosto che in altro”. “Se io…non fossi nato in quel cantuccio della mia selvaggia Vaplatani e in quel dato tempo, e in quelle condizioni, la mia arte avrebbe avuto certo una fisionomia diversa…”. (2)

Dice espressamente altrove che proprio un disticod’una canzone villereccia, sentita da un contadino ,”lu sonnu di la notti m’arrubbasti / ti lu purtasti a dormiri cu tia”, fu alla base della sua vocazione e, rispondendo a Saro Platanìa sostiene che il suo canto contento proveniva dalla Difisa, che è una delle contrade di Cianciana, che egli cantò e descrisse superbamente, pur senza mai nominarla, nei suoi versi e nelle sue prose.

Un luogo lo ha incuriosito o affascinato in modo particolare, forse per la sua peculiarità: il fiume Platani, l’ Halycos dei Greci e l’Iblatanu arabo, che è stato la culla della prima civiltà indigena: quella dei Sicani.

La Vaplatani è al centro della Sicania vera e propria e i monti che le fanno corona son detti, ancor oggi, Monti Sicani. Come non poteva incuriosirlo quel fiume, salato, con i suoi meandri, le acque allora pescose, il suo corso costellato di miniere di zolfo e salgemma e cui era legato il ricordo di quell’antica civiltà con le sue città, che arrovellavano il cervello di Gaetano: Eraclea Minoa, Platanella, Kalat-Iblatanu, Alesa Comite, Ferla, Ciancianìa e, soprattutto, Kamicos con Cocalo Dedalo?!

Il Platani, con le sue pistacchiere, è il luogo della memoria che più dei feudi (Màvaru, Millàga, Bissàna, Majenza),solitari e dalle terre gerbi, affascina il Di Giovanni, sin dai suoi primi scritti.

Esso è un fiume a carattere torrentizio, quindi quasi asciutto d’estate e pericolosissimo in inverno con le sue piene improvvise.

Comincia a parlarne diffusamente già nel 1902 nel poema di 63 sonetti, intitolato A lu passu di Giurgenti (3), in cui domina la figura di frate Matteo, che, giunto a lu passu di Giurgenti, vorrebbe attraversare il fiume in piena. Tutti glielo sconsigliano, i viandanti e i marangoni, che il monaco prende ad intrattenere narrando vita e miracoli di fra’ Andrea da Burgio. Assieme alla piena monta il nervosismo e gli uomini cominciano a bestemmiare Dio, i Santi, la Madonna.

Esasperato, sdegnato, fra’ Matteo esce e, per dimostrare a quei bestemmiatori la potenza di Dio, attraversa il fiume che lo inghiotte inesorabilmente. Il suo fanatismo lo perde.

Non sarebbe stato più agevole e razionale aspettare che si placasse la furia del fiume o attraversarlo su un ponte?

Diciamo che ben pochi ponti congiungevano le sponde del fiume (ancor oggi, per la verità) e che il Di Giovanni, nell’occasione, si rivela fonte storica preziosa.

In quel punto del fiume, cioè a lu passu di Giurgenti, stazionavano i marangoni (in dialetto, maraguna), poveri infelici che abitavano in pagliai o case di creta e frasche e che, in cambio di un modesto obolo, trasferivano da una riva all’altra del Platani sulle loro spalle i viaggiatori, appoggiandosi a li furceddi, invocando S. Cristoforo e incoraggiandosi vicendevolmente.

Ritorna su questo corso d’acqua nel romanzo in lingua siciliana, intitolato Lu Sarcinu (4), pensato per decenni e pubblicato postumo nel 1980 con una puntuale e profonda introduzione del prof. Pietro Mazzamuto. Esso narra la vicenda di uno scansafatiche che per non soffrire i morsi della fame decide di farsi frate del locale convento e ne diviene il cuoco. Dopo aver trascorso fuori gli anni delle prime rivoluzioni a carattere nazionale e i primi dell’unità, ritorna in paese e lo ritrova notevolmente cambiato. Alla Sicilia erano state estese le leggi Siccardi ed il Convento era stato avocato dallo stato, che lo utilizzava come scuola o caserma, cosa che è durata fino a non molti decenni fa. Fra’ Antuninu, assieme a due complici, escogita di lucrare sui morti essendo nel frattempo divenuto responsabile del cimitero. Invita i suoi concittadini a vestire i loro morti con gli abiti più belli, che egli, poi, nel chiuso del convento spogliava e rivendeva in un paese vicino, complice il locale beccamorto che faceva la stessa cosa con i morti del suo paese.

E’ detto lu saracinu per la sua condotta cinica e peccaminosa e perché, appunto, non aveva rispetto nemmeno per i morti.

Il primo della lista era stato addirittura il suo unico fratello.

Fra’ Antuninu è personaggio realmente esistito ma nell’opera alcune vicende vengono trasfigurate.

Nel romanzo il poeta ritorna ai marangoni e alla piena del fiume, che avìa la facci di lu tradituri e facìa lu rucculu di lu lupu vecchiu. La malaria, ca pisava e fumuliava ‘ntunnu ‘ntunnu,  rendeva inospitali le terre adiacenti mentre lu pulizzanu, vuciannu e stripitannu a ddi timpi timpi, facia ‘ntanari macari li lupi di lu Salaciu e strascinava vasci vasci li nuvulazzi uniti e a culuri di la cinniri…mentri l’acqua…fujeva, scruscennu e timpistiannu, ‘mmezzu li cuti,  ntra

la negghia accussì fitta ca nun si vidia autru, unni si taliava taliava. (5)

Ancora oggi il Platani offre il medesimo spettacolo. Le sue sponde non sono più infestate dalla malaria, ma  continua ad inghiottire vite umane e animali (Cc’era la gran china, ed iddu vulìa passari pi forza cu la scecca carricata di virdura…E finìu ca cci appizzaru lu coriu, iddu e l’armaluzza puru…. – 6), qualche ponte, la nebbia nelle mattinate d’inverno lo copre totalmente e la temperatura è molto bassa: uno spettacolo insolito per una cittadina dal clima mite, con inverni molto tiepidi.   (omissis)

Dal Mavaru, una delle contrade o, se volete, dei feudi che si specchiano sulle acque “rummulusi e scujeti” (7) dell’antico Halycos, prende avvio la vicenda di padre Mansueto, il pittore protagonista dell’altro romanzo dello scrittore ciancianese, dal titolo L’uva di Sant’Antonio.

Padre Mansueto, per la cui figura il di Giovanni s’era ispirato al cappuccino padre Fedele da San Biagio Platani, è l’opposto di quel monaco fausu che è fra’ Antuninu.

Egli vede nella pittura un mezzo per glorificare il Signore, che ha voluto fargli dono di questa splendida arte. E’ vero: Dio, modellando la creta da cui ha ricavato Adamo era stato il primo scultore; ma poi cosa fece?

Si cali ‘nfunnu a ‘na surfara, quannu li pirriatura, a la matina, nun cci hannu ancora scinnutu, chi vidi?…scuru!…E si vo’ pittari ssu scuru, chi pitti? …nenti? Metti ni ssu scuru, ‘na fila di lumeri addumati, ed eccu ca hai la luci, ed eccu ca hai lu culuri, e cu la luci e lu culuri, eccu ca hai lu chiaru e lu scuru, e allura sì ca lu poi fari lu quatru. E chi quatru!…

Ora, lu munnu chi era ‘n principiu? Era comu ‘na surfara, unni lu scuru si po’ fiddari. Ma appena lu Signuri dissi:  -Fiat lux! – e ddoppu aviri criatu la luci, la spartìu di lu scuru: Et divisit lucem a tenebris, criàu, veni a diri, lu chiaru e lu scuru, ch’è lu funnamentu d’ogni pittura. Cosa di fari trimari!…Lu Signuri, perciò, prima d’essiri lu primu scurturi, avìa statu lu primu pitturi, quasi pi faricci sapiri a l’omu ca, si voli criari, ‘n’autra vota, (…), tutti li cosi ca si vidinu munnu munnu (…) lu po’ fari sulu sirvennusi di li culura. (8)

E dunque: negli scorsi decenni l’uomo ha deturpato questa splendida opera d’arte divina che è il fiume Platani, inquinandolo, cementificando, sconvolgendone il letto, stravolgendone il paesaggio. Da qualche anno ha preso corpo una nuova sensibilità: la sua foce è divenuta un’area orientata protetta, le anguille hanno rifatto capolino, l’industria che più di tutte lo intorpidiva ha cessato di inquinare, e ci stiamo battendo perché possa essere istituito un parco fluviale che lo restituisca, con le sue anse, le sue gole, i suoi colori, la sua vegetazione e la sua fauna, agli antichi splendori, ai quadri di padre Mansueto, alla poesia del Di Giovanni. E per lasciare un ambiente pulito, fruibile, a quanti ci seguiranno e vorranno ispirasi alla natura per dipingere come hanno fatto i pittori che con le loro opere impreziosiscono le chiese che adornano le nostre  cittadine. (2003).

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