Durante la degenza il malato (’nfirmu) è accudito e vegliato amorevolmente da moglie e figli, che durante la notte si danno il cambio e gli somministrano le medicine del caso.
Il malato, che vede insolitamente gente, chiede il motivo della visita e s’infastidisce perché, immaginando che siano lì per lui, si rende conto della gravità del suo stato e chiede: “Chi ffa? Staju murennu?”. E giù pietose bugie. Scherzando: “L’erba tinta nun sicca ma’!”, oppure “Chi dici? Vossia cent’anni av’a campari!” e altre frasi di circostanza.
Ricevuto il viatico ed esalato il moribondo l’ultimo respiro, i parenti più prossimi “rijinu li vuci”, emettendo urla di disperazione (“cu vuci scasciusa”, appunto) per la disgrazia abbattutasi sulla famiglia e per richiamare l’attenzione dei vicini che accorrono, con l’abbigliamento col quale armeggiavano in casa, a prestare il primo soccorso e, prendendo a consolare i dolenti, aiutano a vestire il cadavere, cui viene infilato l’abito nuovo, chiusi gli occhi e la bocca con un panno annodato sulla testa e, quindi, collocato su un catafalco (più generalmente un semplice lettino) al centro della stanza. Una corona con i grani del rosario gli viene sistemata nella mano destra con la crocetta ben visibile.
Terminata la pietosa opera, comincia, a domanda,la rievocazione della vita e delle virtù del defunto, la narrazione delle tribolazioni e della malattia che lo ha condotto alla “fossa”. L’evento è per tutti i familiari traumatico, come se il tizio, magari gravemente ammalato e in età venerabile, non dovesse mai morire e vivere in eterno. Eppure parecchi erano stati i segni premonitori e di malaugurio, come quella cicala che cantava insistentemente, giorno e notte, nei pressi dell’abitazione sventurata.
I vicini e gli astanti ascoltano con pazienza notizie che già conoscevano e, sovente con molta ipocrisia, fingono di essere veramente dispiaciuti. A quel punto è stato avvertito per “l’angunìa” il prete, che fa suonare a morto le campane, e sono già stati avvisati i figli e gli altri parenti assenti nel momento fatale.
Essi giungono col viso stravolto come se mai si aspettassero la ferale notizia (dall’ariu mi vinni / ssa barbara sintenza, recita un vecchio canto popolare), anche se hanno visto morire la persona giorno dopo giorno.
C’è adesso da pensare al funerale, da far stampare i necrologi con la comunicazione al popolo del giorno e dell’orario del funerale e da “ordinare” le ghirlande, dal cui numero si misura la vastità del parentado.
Molti, andando ad omaggiare il defunto, portano fiori o fanno delle offerte in chiesa per le messe perpetue in suffragio dei trapassati. Una volta le offerte erano pro-orfanelli.
Una volta se il tizio moriva di mattina, verso le ore 20:00, la salma composta dentro la bara veniva trasferita nella chiesetta del Purgatorio, ma non era saldata. Qualche tempo fa tale possibilità è stata preclusa ai ciancianesi molti dei quali, aspettando familiari dall’estero per le esequie, devono tenere a casa il cadavere per più giorni (per fortuna esistono i coperchi-frigorifero).
Finita la messa e collocato il feretro sulle spalle o più generalmente (anzi, oggi quasi esclusivamente) sul carro (automobile) funebre, il corteo si snodava dalla Matrice per il Corso e la Salita Regina Elena verso il Convento, nel cui piazzale avveniva l’estremo saluto allo scomparso.*
La moglie e le figlie dell’estinto riprendono a piangere e a lamentarsi ad alta voce, con urla disperate che spesso strappano lacrime di commozione ai presenti; qualcuna si aggrappa alla bara e in parecchi chiedono al dipartito di “salutare” un loro parente passato a “miglior (!) vita”. Gli uomini, più compostamente, baciano la bara e quando il feretro scompare dietro la curva del vecchio mulino, mentre le donne riprendono mestamente la via del ritorno a casa, si schierano l’uno accanto all’altro per ricevere, per stretta di mano, le condoglianze di quanti hanno assistito al funerale e ingrossato il corteo nel suo snodarsi. Il grosso saluta in Piazza Convento; i più intimi li accompagnano fino a casa, dove porgeranno le loro condoglianze.
Inizia quindi il “bisitu” (o visitu), che dura generalmente tre giorni e durante il quale quanti non hanno presenziato alle esequie vanno a far visita ai dolenti. Oggi è invalso l’uso di dispensare dalle visite, ma l’abitudine è talmente radicata che il “bisitu”, per la faccia tosta dei ritardatari, si protrae per lungo tempo.
Durante il bisitu i dolenti stanno seduti e muti; chi entra, a giro, dà loro la mano condolendosi e salutando tutti i presenti; quindi siede, chiede e si ricomincia col racconto degli ultimi giorni di vita del defunto.
Sin dal momento successivo alla morte, tra i vicini comincia una gara di solidarietà che difficilmente trova spazio in città. Il “cunsulu” ha sicuramente origini antiche e va spiegato col senso della generosità e della solidarietà delle popolazioni mediterranee.
A turno i vicini, durante i tre giorni del bisitu, provvedevano, e ancor oggi lo fanno, anche se in misura ridotta, ai pasti dei dolenti che, così avvinti dal dolore, non avevano il tempo di armeggiare sui fornelli e preparare qualcosa da mettere sotto i denti. Dunque, la mattina caffè, latte e “turtigliuna” per colazione; a pranzo spaghetti al pomodoro e generalmente polpette al sugo.
Talvolta il primo piatto era costituito da pasta in brodo di polpettine e il secondo rappresentato da pollo; più, naturalmente, bibite (vino) e frutta. Anche la cena era abbondante, ma più generalmente ci si arrangiava con gli avanzi del pranzo o si mangiava “’n siccu”.
Mi si riferisce che qualche volta lu cunsulu si trasformava in banchetto vero e proprio con la partecipazione di quasi tutti i parenti del morto.
Inizia subito il lungo periodo del lutto per cui le donne vestivano completamente di nero e gli uomini indossavano una camicia o un pettaccio nero. Il lutto era tanto più fitto quanto più intenso e carnale era il rapporto con l’estinto. Gli uomini per una quindicina di giorni non si rasavano e la barba li assomigliava a spaventapasseri e portavano una cravatta nera.
In ordine di tempo, mantenuta la cravatta, ma smessa la camicia nera, invalse l’uso di una fascia nera al braccio o di un nastrino sul pettaccio sinistro della giacca o di una banda nera sul cappello, se portato usualmente.
Una grande scocca nera veniva fissata sulla sommità della porta d’ingresso, mentre un cartello rammentava il motivo del lutto: “Per mio padre”, “Per mio sposo” e così via.
Guai a non indossare la cravatta; la cosa più simpatica che ci si poteva sentir dire era: “Cu ti murì lu sceccu”?. E guai per una donna a togliere le calze nere! Ho sentito così apostrofare (d’estate) questo atteggiamento di “scarso rispetto”: “Porca buttana! Chissu era lu rispettu c’avìa a la bonarma”?
Oggi certe esteriorità sono superate e i giovani, soprattutto le ragazze, portano meno il lutto, per di più che quelli in nero sono diventati dei capi d’abbigliamento lussuoso.
Ma povere donne allora: seppellite in casa e con le imposte socchiuse, gli orecchini foderati, gli specchi coperti, scocche nere sul mobilio e la testa coperta d’un nero velo! Portaritratti capovolti.
Se moriva il marito o un figlio il lutto era perpetuo e ogni morto richiedeva il suo nero tributo in segno di rispetto: quattro ani di lutto per un fratello e i genitori, due per i suoceri, uno per un cognato, due-tre mesi per un cugino! Spesso le mamme portavano l’effigie del figlio morto sul cuoricino d’oro della collana.
Ai bambini o ai vecchi che avevano superato i cento anni, anziché l’angunìa, si suonava la gloria.
Anche per le signorine era d’obbligo, come per i piccini, la bara bianca con palma, nastro e, in più, rose e fiori (avevano saputo mantenersi illibate).
La prima uscita ufficiale delle dolenti avviene in occasione del trigesimo, allorché i familiari si recano in chiesa per una messa in suffragio (la missa di lu misi), ricevono un’altra volta le condoglianze anche di quanti non hanno officiato al rito la prima volta e portano dei fiori sulla tomba del caro estinto.
Molto lentamente la vita riprende il sopravvento.
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* Oggi le condoglianze vengono porte, subito dopo la messa, davanti alla Matrice.
E’ durata lo spazio d’un mattino la firma su un registro posto all’ingresso della navata sinistra della Chiesa madre.
Fino a una quarantina d’anni fa una corpo bandistico accompagnava il corteo intonando musiche funebri.
I morti, che una volta venivano inumati, riposano in cappellette private.
L’attuale cimitero è stato inaugurato nel 1882.
Il 2 novembre
Il 2 novembre a Cianciana, come ovunque, la chiesa commemora i defunti e nel cimitero, sul cui ingresso un cartello recita “fummo come voi, sarete come noi”, si ripete ciò che capita dappertutto quel giorno.
Come in tutta la Sicilia però il 2 novembre è più semplicemente “la festa dei morti”, una ricorrenza particolare per la gioia dei fanciulli ai quali i genitori fan credere che, se sono stati buoni e hanno recitato le preghiere per le anime dei defunti, i “morti” porteranno dei doni. La sera precedente i bimbi vanno a letto dopo aver pregato e fidu
ciosi d’essere ricordati dai nonni e familiari trapassati e, in taluni casi, dopo aver posto un piatto vuoto sul davanzale della finestra..
Sul tardi i genitori preparano i “piatti” con i “pupi di zuccaru”, raffiguranti guerrieri, cavalieri, galletti, signorine, arricchiti con castagne, cioccolatini, monetine, tetù, muscardini, frutta martorana etc, e li nascondono nei punti più reconditi dell’abitazione.
Al posto del pupo talvolta i bambini ricevevano, e ricevono, in regalo scarpe, maglioni, giocattoli.
La mattina del 2 i pargoli si alzano irrequieti, iniziano la loro frenetica ricerca e interrogano con lo sguardo i genitori, che li invitano a cercare ancora perché, se sono stati effettivamente “bravi”, qualche “bonarmuzza” si sarà ricordata di loro nella notte.
E finalmente trovano. E’ stato fatto credere che, durante la notte, i morti sono usciti dalle loro tombe e hanno fatto l’acquisto.
Non per tutti c’erano doni: nelle famiglie più bisognose a volte solo castagne e qualche dolcino; in qualcuna addirittura una calza vuota.
Le preghiere non erano state “accolte”, erano state poco efficaci e non avevano sortito l’effetto sperato o forse il bambino aveva commesso qualche mancanza!
Narra il Pitrè (G. Pitrè, Spettacoli e feste popolari siciliane, Palermo, 1881, pagg. 396-397) che, secondo l’antica e infantile credenza, i morti “escono dal Convento di S. Antonino de‘ Riformati attraversano la piazza e arrivano al Calvario; quivi fatta una loro preghiera al Crocifisso, scendono per la via del Carmelo. E’ nel passaggio che lasciano i loro regali ai fanciulli buoni. Nel viaggio seguono quest’ordine: vanno prima coloro che morirono di morte naturale, poi i giustiziati, indi i disgraziati …, i morti di subito, …, e via di questo passo”.
(Il cerimoniale, con lievi differenze, è pressoché identico in tutta la zona)
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Spigolature
Proverbi
A la morti scumparinu detti e difetti.
A li morti morti.
Biatu cu mori nni lu so lettu.
Bonarma! La bonarmuzza.
Cu disprezza la morti, disprezza la vita.
Cu la morti nun cc’è ’mmidia.
Cu mori s’addivoca.
Cu mori giaci e cu vivi si dà paci.
Cu mori giaci e cu vivi si sutterra.
La morti è pi tutti aguali.
La sciarra è pi la cutra.
La vita e la morti su‘ ’n manu di Diu.
La vita vinci la morti.
Lu tintu è pi cu mori.
Lu stessu mortu ’nsigna a chianciri.
Megliu un mortu ca centu firuti.
Ogni cosa veni e speddi.
Pagari e muriri cchiù tardu chi si po‘.
Si nasci pi muriri.
Sulu a la morti nun cc’è rimediu.
Unni va ti la porti.
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Lu Saracinu
Visse a Cianciana, nell’Ottocento, un certo fra‘ Antuninu, originario d’un paese vicino, che s’era fatto monaco per non patire più la fame e tanto si adoperò in Convento da diventarne il cuoco.
Espropriati dopo l’Unità i beni ecclesiastici e tornati al laicato molti confratelli, le cose per fra‘ Antuninu si misero così male che escogitò di lucrare sui morti.
Invitava i paesani a deporre nei “tabbuti” i defunti con i loro abiti più belli, che egli sottraeva prima di seppellirli e portava a vendere a S. Biagio Platani, complice il locale “beccamorto che, a sua volta, “spogliava” gli estinti del suo paese, i cui indumenti venivano, poi, da fra‘ Antuninu piazzati a Cianciana.
Alessio Di Giovanni ne fece il protagonista del suo romanzo in lingua siciliana e lo soprannominò, visto che non aveva rispetto nemmeno per i morti e per la sua condotta peccaminosa, “lu Saracinu”.(cfr. A. Di Giovanni, Lu saracinu, Palermo, 1980)
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Modi di dire:
La sciarra è pi la cutra
L’espressione oggi fa pensare alla lite che molto spesso insorge tra i familiari di un defunto per l’eredità da spartire. Ma il suo significato originario è un altro e vedeva tutti i familiari dello scomparso uniti e risoluti nella loro azione.
Quando moriva un povero diavolo, difficilmente i familiari avevano degli abiti nuovi da indossargli, per cui sovente si avvolgeva il cadavere in una coperta che bisognava comprare, generalmente, dal prete. Come d’abitudine dalle nostre parti, il prezzo proposto non va mai bene all’acquirente che in tutti i modi, fingendosi offeso, cominciando a disprezzare il capo da comprare, scoprendone difetti, dichiarandosi preso in giro dalla proposta etc, tira sul prezzo sperando in uno sconto, che quasi sempre ottiene. Quindi, la lite (sciarra) non è (era) per l’eredità ma per uno scopo, in fondo, nobile (la coltre, cutra, con cui avvolgere il caro estinto).
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L’ogliu ’n terra è disgrazia!
La frase potrebbe far pensare ad una bottiglia piena d’olio caduta per terra e al liquido sparso sui mattoni, con grave aggravio economico per la famiglia che ha subito il danno. L’olio, ricordiamo, è tra i liquidi più costosi e bisogna(va) centellinarlo. Come per la locuzione precedente, essa attiene alla morte e ha un suo significato che illustriamo di seguito.
Morto il tizio, si sistemava il cadavere, come abbiamo detto, su un catafalco al centro della stanza. Non esistendo ancora la luce elettrica e volendo risparmiare sulle candele, attorno al lettino, a terra, venivano collocati degli spicchi pieni d’olio, con un meccu che acceso rendeva tenue luce (orciuoli con lucignolo che emanavano, accesi, della fioca luce).
Nel buio quasi totale, chi andava a var visita ai dolenti e ad omaggiare il morto spesso, inavvertitamente, con i piedi, urtava il piccolo recipiente facendo riversare l’olio per terra.
C’è una disgrazia più grande di quella d’un morto in mezzo alla casa?
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