Così come le nascite erano numerosissime anche i decessi erano numerosi; ma, a differenza delle prime gioiose ed allegre, queste erano una vera disgrazia, una perdita irreparabile che si ripercuoteva sulla famiglia per anni specie se a morire era il capo famiglia.
Non era raro nel silenzio della notte profonda sentire urla disumane da accapponare la pelle, urla di donne che piangevano.
Era un dovere svegliare il marito, il padre, il fratello per andare a vedere da dove venivano le urla; il perchè era quasi sicuro, o la morte o una disgrazia.
Allora nel cuore della notte, vestito alla meglio e con addosso qualche mantello o qualcosa di pesante si affacciava alla finestra per cercare di capire.
Altre finestre si aprivano per la stessa ragione ed alla luce della notte si potevano scorgere profili di persone che, anch’esse attratte dalle urla, cercavano di capire cosa fosse successo.
Cercando di individuare da quale direzione arrivassero le urla, si incominciava ad avere qualche sospetto, mentre altre finestre si aprivano: “chi cc’è ? cu grida ? cu jietta vuci,chi murì quarcunu?”, “ma arsira lu gnuri Caliddu c’era malu, pò essiri iddu?”
Qualche ardimentoso già era uscito per la strada; la moglie dalla finestra lo incitava a ritornare a casa: “aggira…aggira…aspetta tanticchia…aggira!”
Senza dare ascolto alla preoccupata consorte si avvicinava al posto da dove venivano le urla.
Sì, i sospetti dei vicini erano giusti: era morto lu gnuri Caliddu!
Vestiti alla meglio, con gli occhi ancora dormienti ed i capelli sparpagliati, i vicini si recavano a portare aiuto e conforto a quella gente.
Alla flebile luce del lume i maschi incominciavano a vestire e preparare la salma da comporre su un umile lettino sistemato in mezzo alla stanza; le donne confortavano i familiari, specie quelle di sesso femminile, che come ossessi urlavano, si percuotevano, si tiravano i capelli.
La luce del mattino trovava una famiglia in preda al dolore; tutte le donne vestite di nero, la testa coperta da un nero fazzoletto legato dietro la nuca; se ne stavano in un angolo a fianco della salma a gridare ed a decantare le gesta, la bontà, i buoni caratteri del caro defunto.
Non era raro vedere la moglie che si schiaffeggiava sulle cosce, sulle guance, quasi volesse infliggersi dolore,sofferenza.
“Comu fazzu ora… cu cci duna a mangiari a sti figliareddi…chi famiglia sfurtunata… comu finì lu sustegnu di sta casa… bbeddu maritu miu…comu fazzu senza di tiia…”
Lamenti, cantilene, pianti, che coinvolgevano i presenti, stimolando la compassione, la solidarietà; il tutto rattristava nel profondo il cuore fino al pianto.
In chiesa, durante le funzioni religiose, le grida dei dolenti non finivano; si placavano un pochino, ma riprendevano subito dopo, provocando le reazioni del prete che con lo sguardo richiamava alla compostezza i familiari.
Terminate le esequie ed usciti dalla chiesa si procedeva a comporre il corteo per accompagnare la salma al cimitero.
Durante tutto il tragitto le grida riempivano l’aria; il pianto straziante coinvolgeva la sensibilità delle persone che sempre numerose erano dietro il feretro.
A destra ed a sinistra, davanti alla bara, due file di ragazzini aprivano l’accompagnamento portando in mano dei fiori.
Quando i funerali erano fatti a persone benestanti e altolocate i ragazzi portavano decine di corone di fiori ed a volte c’era anche il gagliardetto di qualche associazione religiosa a cui il defunto apparteneva.
Il corteo attraversava tutto il corso principale, oggi diviso in due tronconi, partiva dalla matrice e terminava alla periferia sud del paese in prossimità della villa comunale (allora non esisteva; al suo posto un profondissimo fossato scavato dalle copiose acque piovane che scendevano dal paese; per attraversarlo c’era un robusto ponte in muratura denominato “lu ponti granni”).
Qui il corteo si fermava.
L’aria si riempiva di pianti e urla, specie della moglie e dei figli a cui veniva a mancare il sostentamento principale.
Guidate da persone vicine alla famiglia i dolenti familiari si sistemavano in fila addossati alla parete di un edificio e incominciavano a ringraziare le persone.
La gente, cercando di non accalcarsi più del dovuto, messasi in fila, porgeva la propria solidarietà alla famiglia che rispondeva alla stretta di mano con calore e riconoscenza.
“Cordoglianzi…mi dispiaci… cordoglianzi”, ogni tanto qualche amico intimo porgeva qualche bacio, ma solamente tra uomini e tra donne.
Terminate le condoglianze restavano oltre i parenti, gli amici intimi ed i vicini di casa.
A questo punto il piccolo corteo continuava fino all’incrocio tra la strada principale e la deviazione per andare al cimitero.
Qui avveniva l’ultimo saluto alla salma da parte dei familiare e tutti gli altri.
Riprendevano le grida in maniera inimmaginabile; la vedova, i figli, si abbracciavano alla bara quasi volessero rianimare il defunto.
I più coraggiosi cercavano di staccare i dolenti da quell’ultimo abbraccio.
Dopo tanti tentativi, facilitati anche dalla stanchezza che già s’impossessava della stanche membra dei familiari, il feretro continuava la sua strada verso l’ultima dimora, lasciando dietro di se dolore, pianti, grida, disperazione.
Era uno strazio!
Le povere donne non avevano più voce, le corde vocali si rifiutavano di emettere suoni, eppure con voce rauca e quasi inesistente continuavano a gridare e piangere.
Arrivati a casa l’ultimo saluto alle persone che li avevano accompagnati fino alla fine.
Si mettevano uno accanto all’altro e con il corpo e l’animo distrutti davano la mano e ringraziavano con un filo di voce, spesso stando seduti, specie la vedova o la vecchia madre.
La morte nella quasi totalità delle famiglie portava un danno incalcolabile, specie per coloro che vivevano solamente del frutto del lavoro del capo famiglia; moltissime si trovavano in queste condizioni.
Spesso restavano a carico della povera vedova tre, quattro figli piccoli, da sfamare e da crescere.
Era una vera tragedia vedere la povera vedova che si adattava a fare i lavori più umili e faticosi per far da mangiare ai propri figli.
I più fortunati avevano un poco d’aiuto dai suoceri, ma non sempre questi potevano farlo.
Allora per quei poveri ragazzi era un calvario!
Niente scuola; i più grandicelli dovevano andare a cercare qualche lavoretto per portare a casa dei soldi oppure un po di roba da mangiare; alla fine un intero giorno di eseguire gli ordini del padrone ove servivano, portavano alla famiglia qualche soldino oppure del cibo.
Per più di tre anni le mogli stavano vestite di nero fitto, dalle calze alle vesti, col fazzoletto in testa a coprire i capelli, quasi nulla si vedeva, solo le mani e la faccia quando non era coperta in parte dal fazzoletto.
“Cu mi murì lu cani?” dicevano a qualche familiare che dopo tre quattro anni cercava di fare togliere almeno il fazzoletto dalla testa.
Risposarsi con qualche bravo uomo che potesse accudire ai piccoli?
Neanche a pesarlo, si rischiava di litigare e rompere la parentela.
La vedova e in particolare gli orfani, specie se minorenni, erano oggetto di attenzione da parte dei familiari; suoceri, cognati, cugini, facevano il possibile per aiutarli, dare loro del cibo, delle particolari attenzioni ai minori.
Qualche volta, se le possibilità economiche lo permettevano, era il nonno paterno, a pagare e mantenere il nipote, orfano di padre, a studiare consentendogli di riuscire nella vita in maniera egregia.
Questa solidarietà fino a quando uno dei figli, ormai adulto, prendeva in mano la situazione familiare.
I ragazzi dovevano andare a lavorare per aiutare la mam
ma; andavano a “garzuni”cioè a servire chi si poteva permettere di mantenere avere un servo alle proprie dipendenze.
Qui si eseguivano tutti tipi di lavori, anche quelli pesanti.
Accudire alle bestie nelle stalle, condurre le pecore al pascolo d’inverno con la pioggia che entrava nelle ossa, d’estate con la calura che scioglieva le pietre; tutto questo minava la salute dei ragazzi fin da piccoli, le conseguenze si vedevano da grandi quando si ritrovavano con bronchiti e dolori, spesso si vedevano in giro “cu lu immu” con il gibbo oppure con una struttura ossea deformata e carente.
A volte venivano presi a buon cuore dal padrone che li destinava ai bisogni della casa, ai lavori domestici, a fare i servizi esterni; in questo caso conducevano una vita discretamente agiata e la continuavano fino a che decidevano di sposarsi e farsi una famiglia propria.