Mastru Bastianu presidenti, La cumprumisa, Lu rimediu

Quando si parla di letteratura “moderna” non si può fare mero riferimento ad una produzione solo cronologicamente vicina. La modernità è piuttosto connessa alle proposte tematiche più brucianti di attualità ed al ruolo, sempre più idioticamente diverso, che la letteratura assume. Senza scomodare Charles Baudelaire, che per primo ha posto il problema dell’identità tra pubblico (di lettori e di spettatori) e soggetto sociale, sembrerebbe che sia dalle tematiche che dal ruolo e dalla funzione della letteratura si origini e tragga alimento la modernità letteraria. In tal senso le tre commedie di Francesco Cannatella (Mastru Bastianu presidenti, La cumprumisa, Lu rimediu) che compongono Cianciana in scena appaiono obsolete, quasi datate non solo nella stesura, ma anche e soprattutto nei contenuti. Così non è. E non lo è perché non è affatto vero, come si vocifera con sempre maggiore insistenza (R. Villa, Testi e scritture, Milano, Mondadori) che la letteratura borghese, e ancor più, quella di massa abbiano perduto sia la funzione conoscitiva che il “fascino” di quell’aura che circonfonde l’operosità artistica. Oggi l’intellettuale, seppur ritenuto in subordine rispetto alle managerialità economico-finanziarie, non ha affatto smesso di chiedersi perché scrivere e per chi scrivere. E se qualcuno nutrisse ancora delle perplessità si legga o si rilegga Consolo o Saviano, tanto per citare solo due nomi, sicuro di trarne gran profitto. Peraltro non meno vero è che lo scrittore, specie di cose teatrali, sovente per affermare una modernità percorre a ritroso un iter sociale e culturale dove ritrovare la genesi, come dire primordiale, di alcuni coevi comportamenti che caratterizzano epoche e individuano comunità spesso sparse in lungo e in largo per una intera regione. Compito, se non proposito, dello scrittore è quello di indicare logiche, di rievocare fatti e di far rivivere accadimenti e nel contempo additare, storicizzandoli, i naturali sviluppi futuri. Già Antonio Gramsci, ottimo recensore teatrale sulle pagine dell’edizione torinese de «L’Avanti» dal 1916 al 1920, ribatteva a quanti volevano vedere nel nascente cinematografo l’impietoso giustiziere di un teatro agonizzante, che quando veniva rappresentato un classico della scena, o una “schietta caratteristica opera d’arte”, il teatro si riempiva in ogni ordine di posti. E schiette e caratteristiche sono queste tre opere, il cui carattere popolaresco, sottolineato oltre che dai titoli delle idioticità tematiche, li depura dalla comicità greve e maliziosa di certo coevo scientismo dissacrante. Il politicantismo meramente elettoralistico, occhiuto, becero, ammiccante e millantatore di Petru e anche di Tanu (Mastru Bastianu presidenti) capace di farsi beffe dell’ingenua semplicità di un ciabattino, che riscatta al deschetto dell’umile lavoro la propria abusata creduloneria, sono gli archetipi più veri dei più moderni ascari vendifumo che imperversano, ad ogni competizione elettorale, per le sicule contrade. La dignitosa e decorosa dissimulazione del ciabattino rifulge silenziosa non solo al cospetto dell’imbarazzato nipote, ma anche e soprattutto sulla esemplarità canapaia degli onorevoli Manuzza e Piturro, esponenti emblematici della ricca genia dei politicastri paesani. Ma è vero che il processo di sedimentazione politica ha subìto di recente una impennata talmente considerevole da sovvertire, a detta di Di Pietro, la stessa trinità di Dio. Io, per evitar blasfemia, dico che più verisimilmente è in atto un tentativo di sostituire, con subdola raffinatezza, il mai troppo deprecato, logoro e obsoleto “credere, obbedire e combattere” con il più moderno “successo, potere e denaro”. Sono questi i valori che ora spadroneggiano con i loro abusi volti a scippare financo quell’elementare principio della democrazia che delega ai cittadini-elettori la scelta dei propri rappresentanti. Tra le tante iniquità, ora una legge “porcata” per ammissione esplicita dello stesso legislatore, delega ad autentici “capi ‘nfanfari” le scelte che noi siamo chiamati solo a ratificare. E per significare l’oscena teatralità della raffinata nequizie, sedicenti leaders, all’unisono, elettoralisticamente e pubblicamente deprecano l’invisa legge, esattamente come egoisticamente e proterviamente la preservano. Ci sarebbe non poco materiale per l’orchestrazione di una trama farsescamente ardimentosa. Ma la stesura e l’ambientazione della commedia (anni ’70) logicamente esula da simili, inusitati e sfrontati sviluppi; e assai lontana dal farsesco è l’arte egregia del Cannatella. La storia di un solleticante e volgare allettamento elettoralistico si snoda lineare verso un epilogo che afferma orgogliosamente la centralità del lavoro assunto a simbolo di decoro e di riscatto della dignità umana e del dettato costituzionale. È in tale perentoria e redentoria affermazione da cogliere il rifiuto della speculazione e del malaffare, mentre una sana e diversa morale autodiegetica addita il significato più profondo di una commedia condotta con rara maestria scrittoia, sia nella orchestrazione della trama che nella misura dei dialoghi. È un linguaggio che ricalca il fonografismo paesano, identificativo di una etnia, quasi scientificamente adottato nella sua integralità. Un idioletto esatto, singolare e ricco ma non straripante di una pertinente fraseologia idiomatica di cui Cannatella peraltro è un sagace e attento raccoglitore. Frasi e modi di dire, quintessenze della saggezza popolare, puntellano, regolamentano e significano il respiro più ampio e arioso della sua notevole produzione letteraria, pressoché riconducibile, se si escludono le edizioni critiche del Pitrè, a Cianciana e ai suoi dintorni. Locuzioni, motti e facezie sono, dunque, il distillato più puro che identifica un popolo e lo soccorre, a volte anche solo suasoriamente, nei dialoghi, ma sarebbe meglio dire nelle dispute, che richiederebbero ben altre fastidiose ed estenuanti logorree. Un esempio singolare di stringatezza espressiva e di vivacità comica è La cumprumisa, due atti il cui incipit “fuorviante” non solo caratterizza un personaggio, ma ci introduce in una, sempre attuale, pratica d’altri tempi in cui il matrimonio era solo un vero e proprio affare di beni materiali promessi, tra benestanti o tra diseredati, che in compromesso notarile, sovente vincolato da mille scaltre riserve, promettevano la dote ai propri figli. È il tema della “robba”, la dote per i figli da sposare che ripropone verghianamente l’ancestrale “idea dell’ostrica”, così magistralmente espresso in Fantasticheria. Su questo canovaccio si dispiega una commedia spassosa, tutta giocata sull’astuzia femminile (come diversamente da Lu rimediu) in cui i personaggi, fortemente contestualizzati, sono il frutto e nel contempo i testimoni di un ambiente, di una società, di tutto un paese. E il paese è quello di Cianciana, locus sacer dell’investigazine critica e della creazione artistica di Francesco Cannatella. Cianciana è, parafrasando il Donadoni del capolavoro manzoniano, il “protagonista vero e immanente” dell’intera sua opera; un paese unico e, paradossalmente, uno dei tanti dell’entroterra isolano dove il leviano “Cristo” è arrivato con molto ritardo. Qui a venirci incontro sono dei personaggi (molto probabilmente conosciuti dal giovane Cannatella) istintivi e nel contempo calcolatori in un intreccio scenico in cui tutto è vitale, immediato, spontaneo, vibrante di una irriflessa sete di sopravvivenza etica e sociale. Personaggi “ripuliti, mondati” dall’arte pregevole dell’autore ed inseriti in un microcosmo correlativo e corrispondente alla società e all’ambiente in cui si vive o di cui si ha radicata, indelebile memoria storica. È, dunque, un luogo privilegiato di conoscenza che sintetizza l’umana condizione e la sua filosofia di vita attraverso la variegata moltitudine dei tipi che la connotano e la significano. Non si spiega diversamente come tra le pieghe delle vicende ilari, ma
i farsesche, affiori un sussulto, quasi un esorcismo del dolore; e comunque è un distillato autentico della sofferenza che fa capolino da un crogiuolo di arguzie gridate e di disperazioni garbatamente celate. Dinanzi alla cruda realtà del “bisogno” è d’uopo trovare un antidoto alla disperazione e un argine al pubblico discredito; ed è quasi naturale lo svincolarsi dai legami della povertà dissimulando e agendo e magari rovinandosi. Storia di una albagia al femminile, più che il mito, scoperto e polemico, del ritorno nella propria terra dell’emigrato è lu rimediu. Più che denuncia esplicita della miseria e della disoccupazione del proletariato siciliano costretto ad emigrare, per cui molti braccianti siciliani furono costretti ad improvvisarsi operai nelle regioni industrializzate dell’Italia settentrionale, è storia di ordinaria quotidianità nobilitata dall’arte. L’usuale, diffusa grossolanità verbale dell’emigrato siciliano, grottescamente civilizzato, funge solo da contrappunto comico con la storia di una vuota e catastrofica spocchia. Ma il lavoro è anche fucina di ritratti singolari di comari petulanti che sollecitano, con consumata arte, malcelate ostentazioni di beni mai posseduti. Quante Pippine, ma soprattutto quante Nine, Pietrine e Vincenze hanno attizzato e alimentato il fuoco devastante dell’autolatria più ebete, che non ha punto perso lo smalto della sua più bruciante attualità. Di famiglie rovinate dall’alterigia umana ne sono piene le letterature di ogni tempo e di ogni paese; e se Cianciana è l’epicentro lirico e territoriale di queste commedie, la famiglia ne è certo quello socio-culturale. Un universo ricco e complicato, quasi emblema e simbolo di un complesso, consuetudinario, atavico cerimoniale che nel condizionarlo lo caratterizza. Commedie di ambiente e di costume tese alla osservazione della società, che indulgono all’ironia, più o meno salace, con cui si accentua il ruolo di una piccola realtà paesana che stigmatizza le prerogative individuali dei personaggi. A questo teatro si addice una recitazione priva di qualsiasi artificiosità in cui il divertente e il patetico possano convivere nella più genuina elementarità. Solo così queste opere diventano patrimonio comune che sulla scena della realtà quotidiana riflettono lo spirito e il sentire di tutto un popolo. Un teatro alieno, dunque, dalle sempre più ingombranti volgarità della commedia macchiaiola, ancora non poco in voga nel nostro provincialismo scenico, che rende sempre meno riconoscibili realtà e personaggi, pur di strappare un sorriso o un applauso alla platea. Il teatro di Francesco Cannatella affonda le sue robuste radici in quell’humus vitale che è la semplicità, un po’ “birbantella”, del siciliano stilizzato in una serie di atteggiamenti che si appagano di un realismo, oserei dire, esatto. L’artista mette in bocca ai suoi personaggi, per dirla con Luigi Pirandello, «le voci native che dicono le cose della loro terra, come la loro terra vuole che siano dette per essere quelle e non altre, col sapore e il colore, l’aria, l’alito e l’odore con cui vivono veramente e si gustano e si illuminano e respirano e palpitano lì soltanto e non altrove» (N. Martoglio, Centona, pref. di L. Pirandello). Di questi sapori, di questi odori e di questi colori è permeata la parlata di Cianciana che rivive, lo ripeto, fonograficamente in queste opere in stretta simbiosi con la stilizzazione dei personaggi. Sono espressioni e modi di dire che odorano di terra natia, capaci di fornire una rappresentazione nitida e immediata del sentire istintivo e per certi versi passionale dell’isolano. Un realismo semplice e spontaneo, vibrante e concreto, quasi epos della convenzionalità e del contrasto tra l’essere e l’apparire. Le dimensioni di questo mondo, apparentemente ristrette nell’ambito paesano, hanno il respiro lungo della scena più ampia ove il riso caustico ed amarognolo è lo strumento conoscitivo più illuminato di cui il Cannatella sapientemente si serve per una compiuta caratterizzazione umana, etica e sociale dell’ambiente e dei suoi personaggi. Vito Titone

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