Alessio Di Giovanni (1872-1946): profilo artistico-letterario
Alessio Di Giovanni, saggista, folklorista, drammaturgo e romanziere, è uno
dei più grandi poeti dialettali di Sicilia. Luigi Russo lo definì il più grande
cantore degli umili d’Italia dopo il Manzoni; Federico Mistral, premio Nobel
francese per la letteratura nel 1904, apprese il dialetto siciliano per
leggerlo in versione originale, mentre Giovanni Verga ebbe a definire l’arte
digiovannea “viva e sincera riproduzione della vita”.
Il poeta ciancianese, che s’era assunto il compito di rinnovare la lingua e
la poesia siciliana liberandole dalle svenevolezze dell’Arcadia, cantò con
accenti commossi e di sincera partecipazione l’umanità sofferente che popolava
il feudo siciliano, fatta di contadini e lavoratori vari, nullatenenti,
sfaccendati, malandrini, monaci e romiti, persone che vivevano di espedienti e
che si dannavano tra mille soprusi per un tozzo di pane e proprietari
benestanti che sembravano fatti di sostanza meno grossolana e vivevano in un’
altra dimensione.
Nel feudo digiovanneo l’elemento sociale, economico e religioso vanno
sempre assieme.
Quantunque fosse stato debellato ufficialmente dalla Costituzione del 1812,
il feudo da noi continuava a sopravvivere e ancora agli inizi del ‘900 in
provincia di Agrigento si contavano 155 latifondi per complessivi 290.000
ettari. Per intenderci meglio, 155 proprietari possedevano ciascuno qualcosa
come 1250 stadi di calcio (110×65+ spogliatoi e spalti; totale 15.000 mq = 1
ettaro e ½). Ci si trovava dinanzi ad una macchina smisurata che produceva un’
immensa ricchezza e aveva una struttura verticistica, con a capo il
proprietario assenteista che sperperava in città il sudore di migliaia di
braccianti che stavano alla base; nel mezzo della piramide: gabelloti,
campieri, soprastanti e altre figure parassitarie che, subaffittando, gravavano
tutte sulle spalle dei contadini che, controllati dalla mafia rurale, se
desideravano lavorare, dovevano sottostare a patti angarici.
Accanto alle voci del feudo, il Di Giovanni volle aggiungere un altro tema:
quello della zolfara, “l’inferno dei vivi” che avrebbe riscosso un notevole
interesse da parte di autori del calibro di L. Pirandello, T. Aniante, G.
Giusti Sinopoli, P. M. Rosso di San Secondo, L. Sciascia, che affermò che senza
l’avventura dello zolfo in Sicilia non ci sarebbe stata l’avventura dello
scrivere. Di Giovanni lo fece con una potenza descrittiva che ha pochi eguali
nella nostra storia letteraria, anche nazionale. Si vedano, ad esempio, i
sonetti della zolfara, così asciutti, scultorei, drammatici nella loro
essenzialità da trasformarci in spettatori dai semplici lettori che siamo.
Tale facoltà pittorica è uno dei tratti salienti dell’autore ciancianese,
che aveva esordito proprio come critico d’arte durante l’Esposizione Universale
di Palermo, per cui tutta la sua produzione poetica può essere considerata un
grande affresco della vita degli umili che popolavano il latifondo e
consumavano la loro esistenza alla luce di un’acetilene, in zolfara. La sua
prima pubblicazione, Maju sicilianu del 1896, è dedicata a tre pittori:
Garibaldo Cepparelli, Francesco Lojacono e Luigi Di Giovanni (non parente, ma
grande amico).
Il pittore che più lo aveva colpito era stato Niccolò Cannicci che aveva
saputo rendere, attraverso i quadri, l’anima della sua Toscana.
Di Giovanni si propose sin d’allora di rappresentare la realtà siciliana e
ai colori sostituì penna e calamaio elaborando una poetica che avrebbe generato
risultati sorprendenti.
Egli fu essenzialmente un realista, ma il suo realismo – dice l’agrigentino
G. A. Peritore – fu la vita stessa della sua gente. Questo realismo più che
venirgli dal Verga, padre nobile del nostro Verismo e col quale il poeta
ciancianese intrattenne rapporti epistolari, gli deriva dalle frequentazioni di
contadini e zolfatari e dalla lezione del padre Gaetano, insigne storico e
folklorista, del Pitrè, S. A. Guastella, L. Vigo, S. Salomone Marino, G. Ragusa
Moleti.
Il problema era come far parlare le anime che affollavano il feudo. Non
certo in Italiano, lingua sconosciuta alla maggior parte della popolazione
siciliana, non nel dialetto letterario del Meli e dei suoi seguaci e,
tantomeno, nel dialetto borghese del Martoglio che gli appariva un espediente
da bottega, troppo caricaturale.
Scelse, così, per rendere l’intima anima della nostra gente, un linguaggio
semplice, fedele al parlato, senza fronzoli, scultoreo; un linguaggio fatto non
solo per le anacreontiche e per i cunti, ma che fosse “coscienza riflessa” e
portavoce del popolo; un linguaggio, il girgentano nobilitato, che sembrasse
nascere dalle cose e parlasse al cuore e alla mente degli ascoltatori, che
sapevano in quale ambiente gli attori del feudo agivano.
A fare del Di Giovanni un ostinato assertore del dialetto, desideroso di
vivere en plein air, fu il distico d’una canzone villereccia che egli aveva
sentito cantare laggiù, nella sua bella e selvaggia Valplàtani, da un
contadino:
“Lu sonnu di la notti m’arrubasti,
ti lu purtasti a dormiri cu tia”.
Da quel momento decise che doveva “impastare pane siciliano con farina
siciliana” perché in quei versi gli sembrò riecheggiasse tutto il retaggio dei
padri. Ma, attenzione! Il Di Giovanni ha una concezione “élitaria” del
dialetto; per lui il poeta dialettale colto “non deve dimenticare la sua
condizione e i suoi studi”, deve avvalersi del dialetto natio ispirandone l’
alito particolare e conferendo ai suoi versi un taglio popolare, non
popolaresco, per dare l’impressione che la stessa poesia provenisse dalle
zolfare, dal feudo, dalle contrade paesane.
Erra chi considera il dialetto un semplice aspetto della produzione dell’
aedo ciancianese; esso ne è l’aspetto qualificante e portante e senza questa
convinzione non si riuscirebbe a cogliere l’intima essenza della sua arte.
Chi scrive in Italiano è meno dialettale di chi scrive in vernacolo? Che
dire dell’Italiano del Verga? E di quello di A. Camilleri? Il siciliano è una
lingua che non deve dimostrare nulla: è buono per la poesia e la prosa,
strumento giusto per celebrare la storia, la cultura, le tradizioni, l’
humanitas di “una sicilianità in cui la lingua è semplice e dotta, dialettale e
universale, sorella e madre”, alla cui mammella attingiamo sin dalla nascita.
L’amore per il dialetto, per la terra e il focolare domestico ha fatto
apparentare il Di Giovanni ai felibristi francesi. Qualcuno sostiene,
addirittura, che senza il Felibrismo non avremmo avuto il poeta che conosciamo.
A me non sembra e se essere felibristi significa nutrire amore per le foyer,le
clocher et la terre, penso che il mio paesano sarebbe stato felibrista anche
senza il movimento fondato da Federico Mistral nel 1854; d’altra parte, la
tematica che potremmo definire felibrista era stata già enunciata dal
ciancianese nel saggio del 1896 intitolato Saru Platania e la poesia siciliana
nel quale egli aveva esortato i poeti isolani a “uniformare la loro opera allo
spirito della regione e del paese in cui vivono”, a riferirsi al momento
storico. Quando nel 1904 Il Mistral lo nominò socio onorario del suo movimento,
il Di Giovanni aveva già pubblicato, oltre ai testi già ricordati, A lu passu
di Giurgenti, Lu fattu di Bbissana, parecchie delle poesie che poi sarebbero
confluite nelle Voci del feudo e
pensato già a Scunciuru e Gabrieli, lu
carusu, nonché l’ode Cristu, che segna l’abbandono del fonografismo.
Tra il poeta siciliano e quelli occitanici non ci fu reciprocità; il Nostro
fece conoscere gli autori provenzali in Italia, nessun francese tradusse Di
Giovanni nella sua lingua.
Ha sicuramente ragione I. Rampolla del Tindaro quando parla di consonanza
di intenti e di temi tra poeti di due regioni mediterranee (Sicilia e
Provenza), così simili per condizioni storiche e tradizioni civili. Rimarcabili
mi sembrano le differenze: il felibrismo aveva natura essenzialmente
ottimistica, ADG illustra un’umanità dolente; la riscoperta del provenzale per
i felibristi significava prendere le distanze da Parigi con la sua opprimente
politica accentratrice e riaffermare la loro identità etnica, cioè di razza.
Per Di Giovanni parlerei “d’orgoglio d’appartenenza”, perché il dialetto è
marchio d’appartenenza, segno d’identità e sicilianità che non ripudia l’
italianità; il poeta ciancianese venerava la nostra lingua nazionale, aveva
alto il senso della Patria italiana e più volte aveva applaudito all’impresa
unificatrice di Garibaldi. (→ cfr. Za Francischedda, L’ultimi siciliani,
Sacerdoti e francescani nell’epopea garibaldina del ’60)
E veniamo all’altro grande tema della produzione digiovannea: la
religiosità.
Quella del Di Giovanni è una fede sincera che, seppure non sorretta da
studi teologici approfonditi, è pur tuttavia forte e ben radicata, non supina,
bigotta o acritica. Essa, trasmessagli dalla madre, si riconduce, secondo V.
Arnone, a momenti mistici e alla storia della Chiesa, al canto dell’utopia
cristiana; una religiosità patriarcale che raccoglie tutte le istanze di
rinnovamento della società siciliana in fermento negli anni di fine secolo XIX
(il periodo dei Fasci) che sembravano tingersi di rosso, cioè di socialismo.
Del socialismo, di cui da giovane aveva condiviso le istanze utopistiche, il
francescano Alessio non poteva assolutamente condividere il concetto di lotta
di classe, ma si rendeva conto che le pretese di contadini e zolfatari non
erano infondate, ma bisognava assolutamente sottrarli alle grinfie dei falsi
socialisti con un’azione umanitaria lungimirante; essi tuttavia peccavano di
presunzione quando volevano appropriarsi di cose e sostanze che non erano di
loro appartenenza. Inimmaginabile, per uno spirito interclassista o di borghese
illuminato come lui, pensare ad azioni violente che avrebbero irrigidito la
frattura tra le classi e seminato ulteriore incomprensione e odio ma nemmeno
giustificabile era la rapacità del suo ceto d’appartenenza, arroccato su
posizioni di non sempre giusto privilegio. I contrasti sociali per questo
ingenuo e caldo cuore di poeta si sarebbero potuti stemperare nella città dell’
amore francescano, in cui avrebbero regnato pace, amore e fratellanza sull’
esempio del grande Santo d’Assisi.
La figura di S. Francesco, il cui Cantico delle creature era la più bella
pagina cristiana dopo il Vangelo, lo affascina, come la vita nei conventi, vere
oasi di salvezza e di pace.
Quella conventuale era una realtà che il Nostro conosceva assai bene perché
in Valplatani i conventi non sono mai mancati. E sapeva che non tutti i
conversi conducevano una vita irreprensibile. Abbiamo, così, dei monaci
“fausi”, come il mafiosesco fra’ Liboriu di Scunciuru, fra’ Antuninu,
“saracinu” dell’omonimo romanzo postumo, il rivoluzionario patri don Agustinu
(L’ultimi siciliani) che grida vendetta contro i delatori e vorrebbe “manciari
lu cori” all’assassino del fratello, il fanatico fra’ Matteo (A lu passu di
Giungenti); e dei monaci santi, come fra’ Grigòli e padre Mansueto (La racina
di Sant’Antoni), cui manca solo l’aureola. E tanti altri fratacchioni, come
fra’ Sarafinu (Gabrieli, lu carusu), che, dopo l’Unificazione nazionale con la
confisca dei beni ecclesistici, erano ritornati al laicato e vissero d’
espedienti non sempre compatibili col saio. Per avere idea della religiosità
del Di Giovanni basta (!) leggere le opere menzionate, Lu puvureddu amurusu, l’
ode Cristu, in cui il Redentore si fa carico di tutte le sofferenze umane, e i
drammi, soprattutto Gabrieli, lu carusu che ci pone dinanzi, presso le classi
popolari, ad una religione istintiva, primordiale quasi, pregna di
superstizione, intrisa di fatalismo che induce alla rassegnazione e si
manifesta in locuzioni usuali (“Facemu la so’ vuluntà”) in bocca ai popolani
che hanno piena fiducia in Dio (“A nautri nn’abbasta ca lu Signuruzzu nni duna
saluti e lu pani cutiddianu”) o che lo sfidano, imprecando, bestemmiandolo
anche senza accorgersene e mettendolo alla prova chiedendo grazie o favori in
una religione di comodo. Le anime semplici lo venerano, lo implorano, gli si
rivolgono devote e gli si affidano: è il vecchio Dio campagnolo cui fa
riferimento anche Pirandello. Altri soggetti hanno poco di cristiano, sono
miscredenti (”Iu sugnu cchiù granni di Cristu!”), non conoscono pietà,
misericordia per il prossimo né la sua dignità. Sono anime esacerbate dalla
fatica, dalle sofferenze, dall’ignoranza (“Nautri suli vi li chiantamu li
chiova?”) e aspettano da Dio un rivolgimento (“Signuri, ‘nca pinzaticci vui
almenu”, “A cu’ tantu, a cu’ nenti!”) standosene immobili e sconfinando nel
paganesimo (“Signuri tirannu, comu lu putistivu fari?”, “Cristu è lu sbirru di
lu munnu!”).
E allora torniamo a S. Francesco, la cui mitezza, il cui esempio è la
panacea adatta a non esacerbare gli animi.
Il Poverello vive per Di Giovanni in uno splendore etereo, è l’alter
Christus, il suo ideale è moderno, perché egli non nutre rancori, non cova ira,
è un’anima raggiante di luce che vorrebbe effondere su tutte le cose e le
creature di questo mondo, che chiama fratelli e sorelle; è l’apostolo dell’
umiltà, della semplicità, dell’amore universale e disprezza le ricchezze e il
superfluo. Francesco è un giullare, il giullare di Dio, che ha un vero culto
per la gioia e una visione colma di stupore e riconoscente tenerezza, non
smette mai di lodare il Padre per quanto ci ha donato e ci circonda e non
riesce mai a saziare i suoi occhi.
Non disprezzava nulla, non si allontanava da nulla, “amava tutti, aveva un
sorriso e una lacrima per tutti, non vedeva nella natura nulla di nemico o di
troppo umile, raccattava anche i vermi da terra … era simultaneamente nel
mondo, uomo fra gli uomini, creatura fra le creature, e fuori del mondo, in
intimo colloquio con Dio…”(cfr. E. Di Natali in Quaderni digiovannei).
Per tutti questi motivi Alessio modella su di Lui tutto l’arco della sua
vita e del suo ideale di fede intride la sua arte; lo sicilianizza, facendolo
muovere nella nostra campagna a sostegno dei derelitti, degli ultimi, e della
sacralità del lavoro, tema caro a cristiani e socialisti.
Il suo francescanesimo è tutto qui, in questa simbiosi d’amore per Dio, la
natura e i fratelli, nella mansuetudine che ci fa ritenere che nulla accade per
caso ma obbedisce ad un preciso disegno di Dio, della cui misericordia non
bisogna mai disperare.