I veri sconfitti della rivoluzione del ’60, accanto alle masse popolari, furono i democratici autentici, coloro che per la patria unita avevano dato il sangue e viste confiscate le loro sostanze, pagato con l’esilio la fermezza degli ideali. Nella nuova società, fondata sul vecchio, non c’era posto per i puri, per chi non era disposto al compromesso con gli altri e con la propria coscienza; essi vengono emarginati o resi inoffensivi all’opposizione. “Noi abbiamo sudato sette camicie a coltivare il campo e loro ne godono i frutti ”.
Diversa la sorte dei moderati, parecchi dei quali “fratelli massoni”, che seppero gestire il momento del trapasso, assicurando l’ordine, e con la nuova “alba” occuparono nelle amministrazioni gli spazi che avevano degnamente guadagnato con la loro condotta e attività e fecero la carriera che competeva loro.
Di moltissimi liberali e democratici nessuno “ha un impiego,mentre poi si vedono gli impieghi tutti e le prebende divisi tutti od accumulati in persone che non li meritano per altro, che per l’intrigo e l’improntitudine ”.
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II PARTE
L’unico ad uscire indenne da quest’oceano di delusione fu Giuseppe
Garibaldi, che aveva portato a compimento la sua missione.
Egli entrò subito nell’immaginario collettivo siciliano assumendo le sembianze d’un eroe senza macchia e senza paura venuto a liberare un popolo schiavo che subito ne resta affascinato, folgorato proiettandolo nel mito, dove pure lo avevano collocato – durante e dopo l’impresa – i suoi Mille e soprattutto i memorialisti in camicia rossa, quali, per citarne solo tre, G. C. Abba (Da Quarto al Volturno, del 1880), A. Mario (Camicia rossa,del 1875) e G. Capuzzi (La spedizione di Garibaldi, del 1860).
Ecco come lo presenta il poeta e sindacalista rivoluzionario Vito
Mercadante:“… Chistu è l’omu chi vinci la sorti! / …Chistu è l’arma di tutti sti genti!”.
E’ un “cavalieri mai vidutu / ’ntra stu mari di frumentu”, la cui “vita è di cui soffri,/ cavalieri di lu munnu” per cui “Unni regna tirannia, / unni un populu è suggettu, / lu so vrazzu valurusu / e pi scutu lu so pettu!”.
Egli è sempre “serenu comu un Diu” e se fissa con i suoi occhi profondi nessuno gli resiste e si sente trascinato .
Per Alessio Di Giovanni, che sull’impresa garibaldina in Sicilia tornò più volte nei suoi scritti, il Nizzardo sembrava “un patri ca parra a li so figghi … avìa ’na vuci ca scuteva l’arma …/…/ Veru veru pareva Gesù Cristu, / senza superbia cu li puvireddi!” .
Per Baldassare Li Vigni Garibaldi è il nuovo sole che “nni leva di ’ncruci” ed è, perciò, “binidittu tuttu”, angelo incarnato, che stima come figli i Siciliani .
Garibaldi è un essere straordinario, che non ha paura di esporsi alle pallottole, un vero padre che mangia minestra di fave verdi come tutti i mortali e i suoi soldati, che siede su pietra e ha parole di conforto e incoraggiamento per tutti, soprattutto per chi soffre.
I canti e la poesia popolare non potevano ignorarlo e l’Eroe diventa leggenda:
“Ch’è beddu Caribardu, ca mi pari / san Michiluzzu arcancilu daveru,/ La Sicilia la vinni a libbirari / e vinnicari a chiddi ca mureru; / quannu talìa, Gesù Cristu pari,/ quannu cumanna Carlu Magnu veru”.
“…/ E quannu lu cumannu iddu dava / tuccava trumma e prima si mittìa,/ cu ddu cavaddu lu primu marciava, / ’mmenzu li scupittati cci ridìa”.
“Vinni ’Aribaldi lu libiraturi, / ’nta lu so cori paura non teni /…/ fu pri chist’omu ccu la fataciumi / ca la Sicilia fu libira arreri.” .
Nei canti raccolti da Antonino Uccello Garibaldi ha “la magnanimità di un invitto paladino” che trasforma l’inferno isolano in paradiso dando linfa alle speranze dei Siciliani di una vita migliore; a Palermo, per assonanza di cognome, viene imparentato a Santa Rosalia (Sinibaldi), patrona della città. I cantastorie narrano le sue gesta (è capace di fare scaturire anche l’acqua dal suolo) e le ragazze storneli:
“Ciuri di linu!/ Guarda l’amuri miu quant’è baggianu; / russu vistutu di caribardinu! / Ciuri di cocuzza! / E ora l’amuri miu sgherru mi passa, / cu la cuccarda e la cammina russa.”
Lo stesso atteggiamento traspare nella Raccolta amplissima di canti popolari siciliani di Lionardo Vigo (Catania 1870-74) e nelle opere di altri demologi.
E potremmo ancora continuare.
L’unico inconveniente per i piccoli paesi dell’entroterra siciliano furono le bande di ladri e briganti che, liberi dopo anni di catene in occasione della rivoluzione, continuarono a delinquere seminando terrore tra le miti popolazioni, spacciandosi per garibaldini e tutori dell’ordine. Simile situazione è descritta da Giovanni Pullara in un romanzo nel quale racconta le imprese del capitano Padella che imperversò nel territorio di S. Stefano Quisquina, si vendicò di quanti riteneva suoi nemici, vessò oltre ogni dire la popolazione e organizzò una “spedizione” contro le monache della badìa di Gesù a Bivona. Similare vicenda è narrata da Pirandello nella novella
L’altro figlio, che ha per protagonista il feroce bandito Cola Camizzi, che in un monastero gioca a bocce con le teste delle sue vittime e ammazza le povere creature di Dio, così, per piacere, come fossero mosche, per provare la polvere…
Sfuggiva a quelle inermi popolazioni la consapevolezza che nulla quei ribaldi e la loro liberazione avessero a che fare con Canebardo che, anzi, si adoperò per restaurare l’ordine.
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Concludendo questo breve intervento: Nessun siciliano ha mai messo in dubbio l’Unità della Patria per la quale nelle guerre e moti risorgimentali molti hanno combattuto e dato la vita. Francamente un po‘ tutti i nostri avi si sarebbero aspettati un trattamento diverso e una maggiore attenzione e autonomia, che quando è arrivata non è stata saputa adeguatamente indirizzare.
Se i “piemontesi” hanno colpe, sicuramente le loro responsabilità sono minori di quanti avrebbero dovuto rappresentare al Parlamento nazionale le istanze dei Siciliani, un popolo che s’è abituato a chiedere per favore quanto gli spetta di diritto, ad aspettare che gli altri risolvano i suoi problemi e a flirtare col potere. Una cosa questi rappresentanti non riusciranno mai a fare: imbavagliarci e toglierci la cultura che è voglia di pensare con la nostra testa. Paradossalmente devo concludere affermando che hanno fatto di più i Leghisti (dei quali non condivido assolutamente alcuni atteggiamenti) per la popolazione della Padania negli ultimi vent’anni che i nostri paladini in questi primi (speriamo non ultimi) 150 anni di Unità nazionale.