A cura di Agostino D’Ascoli
……sono andato un pò lontano. Ma ciò che ho veduto nelle zolfare di Favara e di Cianciana non è mai stato portato in piazza da nessuno. Adesso non ho tempo, ma quando sarò tranquillo sulla scranna di casa mia o della redazione del giornale che rappresento, voglio commuovere e far piangere l’Italia intera. Mi pareva di essere in un istituto di rachitici. Dico male, mi pareva di essere all’inferno. C’era dell’ospedale e del girone dantesco. Vedete frotte di ragazzi e di ragazze, tra i nove e i dodici anni, nudi o quasi, venire alla superficie coi loro carichi di trentacinque chilogrammi, piegando sovente sulle gambe come ubriachi. I piccini e le piccine portano sulle spalle un carico superiore a quello del portatore abissino. Ci dovrebbe essere una legge che impedisse che la speculazione frustasse la carne giovine in modo così orribile. La giornata era piuttosto fredda e loro uscivano da una temperatura, se non ardente, caldissima.
Le loro spalle avrebbero fatto compassione ai sassi. Erano spellate, cicatrizzate, mendate, rosse dal peso che scaricavano. Coi visi macilenti, con le braccia spolpate, con le ossa delle spalle aguzze, con le gambe scarne e soventi storte, mi sono sentito salire dalle viscere la commozione che annebbia gli occhi. In quello stato di dolore veramente sentito, io che non sono socialista, io che non voglio diventarlo perchè la vita delle moltitudini non è mia, in quell’attimo angoscioso ho, come in visione, frangersi la civiltà che si è accumulata in questi secoli, come vanteria inutile. Tu non hai ragione di esistere fino a quando le miniere siciliane saranno popolate di fanciulli e di fanciulle che imbruttiscono, ischeletriscono e muoiono nelle cave dello zolfo per mantenere nel lusso degli ingrati! La scena mi è inchiodata al cervello. Vedo ancora la ragazza che precipita, tra le risa delle altre, dalla scala che metteva nel pozzo e risaliva scorticata senza una parola di lamento. Vedo i nani, vedo i deformi, vedo i ragazzi quasi senza cassa toracica e vedo altri pieni di gibbosità e di slogature come una crociera d’ospedale. La civiltà che vi consuma per non servirsi dei mezzi meccanici di estrazione è una malignità raffinata nella crudeltà e condannata a perire. E non ne parlo altro per non guastarmi il sangue.
Tratto da: La questione sociale – De felice Giuffrida Giuseppe (Roma 1893)
I lavoratori nelle miniere di zolfo sono: i “ pirriatura “; picconieri che estirpano lo zolfo col piccone o anche con le mine, in casi rari e quando i regolamenti e le condizioni lo permettono.
Gli “ spisalora “: che, presi dai picconieri, lavorano alla ricerca di nuovi strati di zolfo , a fare dei ventilatoi , acquedotti o a seguire opere giornaliere di manutenzione delle miniere.
Gli “acqualora”; acquaioli, che liberano gli strati dello zolfo dalle acque, quando la miniera non sia fornita di un acquedotto ( emissario) . Il loro lavoro si svolge con le “sguarre “, trombe o altra macchina idraulica, ed anche con otri, recipienti di argilla cotta come: ( quartari, lanceddri ) o con barili di legno.
Gli “ scarcaratura” detti anche “ inchitura” o “ carcarunara” che riempiono di zolfo i calcaroni per la fusione e, una volta raffreddata la cinigia, li vuotano per riempirli nuovamente.
Gli “ arditura “, arditori che curano di ricevere lo zolfo fuso nei truogoli “ gaviti” lavorando , alcuni la notte, altri la notte.
I “ carusi “; bambini e ragazzi dai 7 ai 18 anni di eta, che trasportano lo zolfo, estirpato dai picconieri, fuori dalle miniere o nei posti dove inizia la stradella; in quelle zolfare dove sia una stradella: ( binario con lamine di ferro), sono i “carritteri” che poi conducono fuori lo zolfo a mezzo di vagoncini (carri) . Molti “carusi” hanno gli “spisalora” per il trasporto del materiale che essi estirpano nel loro lavoro. “Carusi “ e “caruse “ hanno pure gli “ scarcaratura”.
Gli acquaioli e gli arditori lavorano da soli.
Tutti questi partono dal paese, prima dello spuntare del sole, per avviarsi verso le miniere.
Questi si dividono in due gruppi: quelli che lavorano all’interno: ( pirriature, spisalora, acqualora, carrittera e carusi ) e quelli che lavorano all’esterno: ( scarcaratura, arditura, carusi e caruse ).
Questi lavoratori esterni si siedono attorno o vicino al calcherone e fanno colazione, quindi si fanno il segno della croce e si mettono al lavoro: Mangiano a mezzogiorno, si riposano circa due ore e tornano al loro lavoro, restandovi fino al tramonto del sole. Gli arditori non lavorano a gruppi, uno di loro sta attento al calderone e nessuno di essi puo andare via, a fine giornata, se non arriva un’altro per sostituirlo. L’arditore, che in una settimana ha prestato servizio di notte, ha diritto di lavorare di giorno nella settimana successiva. Qualcuno, per guadagnare molto, si presta a lavorare sia di giorno che di notte, riposandosi in quei momenti in cui il calderone non da olio.
L’olio ( ogliu ) è lo zolfo fuso che esce dal calderone e viene raccolto lelle “Gaviti”, dove, dopo parecchie ore, e una volta rassodatosi , viene tolto dal contenitore per essere sistemato sulle “balate”, precedentemente ottenute. La “ balata “ è lo zolfo , fuso, in pani o in formelle.
Quelli che lavorano all’interno delle zolfare: si raccolgono tutti attorno all’imbocco della miniera; fanno colazione e poi, in lunga processione ,dopo aver acceso “ spicchil e lumeri ” ( vasetti di terr
acotta con il moccolo “ meccu” di coton alimentate ad olio ) iniziano a scendere verso il fondo della miniera, segnandosi ciascuno con la croce, appena messo piede nel primo gradino, e recitando l’atto di fede. Giù, nell’ultimo gradino della scala questi si dividono per avviarsi ognuno nel proprio “ locu “; posto di lavoro assegnatogli. Ivi giunti, i carusi, si spogliano dei loro abiti; rimanendo, praticamente, nudi. Nel “ locu “ trovano, già estirpato dal giorno innanzi, tanto materiale quanto basta per essere trasprtato nel “primu viaggiu” primo viaggio. Materiale che i carusi mettono negli “stirratura” ( contenitori intrecciati con rami di ulivo e striscie di canne) o nei sacchi, dipende dal materiale se grosso o minuto. Quindì, questi bambini, tornando a farsi il segno della croce e aiutati dal picconiere, si adattano sulle spalle il loro carico. Baciata la mano al picconiere iniziano la risalita verso l’esterno della miniera. Sotto lu “stirraturi “ o il sacco i carusi mettono lu “chiumazzata” , che è un sacchetto pieno di paglia o di “ stuppa” canapa, tenuto, nei due lati superiori da una correggia in cuoio o da un filo di spago, in cui si introduce la testa in modo che il cuscino cada sulle spalle. Quando i carusi camminano all’interno della miniera quello che sta davanti a tutti porta la “ lumera “ o altro per far luce, voltandosi di tanto in tanto per illuminare il cammino di chi lo segue.Questi carusi, secondo la maggiore o minore distanza da percorrere, debbono fare, al giorno, un determinato numero di viaggi; solitamente una ventina.
Durante i quali erano soliti cantare:
Quattru li vaiju e pigliu ed è daura
Sidici mi nni restanu di pena!
Ed ancora , andando avanti:
Deci li vaiju e pigliu cu furtuna
E ottu mi nni restanu di pena!
Al decimo viaggio prendono un tozzo di pane, che tengono nella “pitturina” ( tra la camicia e il petto) o nella sacchetta delle mutande ( quando le indossavano) e lo mangiano al cominciare dell’undicesimo viaggio. Bevono, all’uscita e qualunque acqua loro capiti, da quella dei torrenti a quella che corre sotto i “ginisi” ( scartidello zolfo fuso). Quando vedono scendere in miniera il capomastro cantano:
Piglia la cannila e facci lustru
Ca cala lu bon’omu capumastru!
Quando il carusu giunge al terzultimo viaggio canta:
Chi lustru chi mi fa la me’ lumera
Chissu è lu segnu ca vaiju a livari
Nel penultimo: E stu viaggiu ci lu vaiju a ppizzu
A la vinuta li robbi ed un tozzu
Nell’ultimo: Chiddru chi vaiju e pigliu a la vinuta
Lu vaiju e pigliu cu la me iurnata!
Ed ancora: Ci l’haiju a diri a li me pirriatura:
L’urtimu e chistu, si nni po’ acchianari!
Oppure per sollecitare il compagno a far presto anche lui:
Lu me’ cumpagnu ch’è fattu di lignu
Si nun mi porta a livari mi nni lagnu!
Durante il faticoso ed opprimente “viaggiu” questi poveri carusi, sotto il peso del loro gravoso carico, gemevano e piangevano che era ( a dire di chi vi lavorò): uno strazio per chi ne provava pena e pieta. Alla fine dei loro viaggi giornalieri, si segnavano di nuovo ringraziando Dio, baciavano di nuovo la mano al picconiere e uscivano fuori dalla miniera dove, una volta rivestitisi, si caricavano il piccone, il sacco o lu “stirraturi”, e la “chiumazzata “. Si avviavano, così, verso il paese , cantando, nonostante la stanchezza, le solite canzoni popolari:
Ch’è beddru lu patruni quannu veni
Quannu nni porta li grana a li mani!
Oppure: E lu suli è juntu all’inni
Dai patruni iemmuninni!
Il Picconiere, giunto sul posto di lavoro “locu” si spogliava lasciandosi addosso solo le mutande
e le scarpe, mentre i “carusi” trasportavano lo zolfo, estratto la sera prima. Se nel posto faceva molto caldo, il picconiere si toglieva tutto e lavorava nudo, portando via il sudore, che gli colava su tutto il corpo, con un pezzo di legno a forma di coltello. C’era chi offriva al Signore, quel penoso lavoro, in penitenza per i suoi peccati e chi, invece, bestemmiava dannatamente e maledettamente, imprecando verso Dio e i suoi santi, esclamando: “ Maliditta me’ matri ca mi figlià! – Porcu lu parrinu ca mi vattià! – Era megliu si Diju mi faciva porcu, almenu a l’annu mi scannavanu , la pigliava ‘n culu e muriva! – Così come queste altre terribili bestemmie a tono di indescrivibile disperazione. Anche quando andava a mangiare era solito dire, cinicamente sconfortato: “ Vaiju a ‘mmilinarimi!”. ( Vado ad avvelenarmi!). E quando aveva finito: “ Mi ‘ntussicavu!” ( Mi sono
intossicato!). Espressione di profonda disperazione per la vita e per il lavoro che è costretto a fare. Finito il suo lavoro, si vestiva e saliva all’aria aperta, dove consegnava, al caruso, la lumiera “uglialoru” ed il piccone. Il picconiere di zolfo lavorava , quasi sempre, per conto proprio e mai alla giornata aveva un contratto a “cassa” o a “canna “ (.Una cassa, misura convenzionale, che poteva variare di paese in paese, a Cianciana era alta circa metri 1,06 a formare un quadrato avente i lati metri 2,42 in tutto 6,20 metri cubi. Cinque vagoni formavano una cassa. Gli “sterri “; lo zolfo il polvere si misurava con un ottavo, unità di misura di capacità in legno, otto di questa formavano una cassa). Cioè, riceveva un tanto per ogni cassa di zolfo grezzo che estirpava e trasportava. A “carico” si assumeva l’obbligo della fusione e facendosi, perciò, pagare un tanto per ogni carico di zolfo fuso. Il picconiere “ a spese”; lavorava alla giornata o a canna. A “giornata” aveva un tanto per la giornata e per l’olio; lavorava un poco più dei picconieri a “cassa” e ritornava al comune 2-3 ore dopo degli altri ma il suo lavoro era meno pesante. Chi lavorava a “ canna” poteva smettere quando voleva perchè il pagamento era un tanto per ogni canna di avanzamento. Questo tipo di contratto si faceva, solitamente, quando nella marna “tuffu” si doveva eseguire un tentativo, un ventilatoio, un acquedotto o un corricolo qualunque. Gli “scarcaratura” erano pagati un tanto per ogni cassa di zolfo messa nel “carcaruni” calcarone o di cinigia vuotata nello stesso. Essi da quel tanto; da quel prezzo stabilito: pagavano i carusi o caruse, queste ultime, essendo il lavoro all’aria aperta, abbondavano più dei carusi . Il lavoro iniziava alla mattina presto e terminava al tramonto del sole, entro il quale facevano qualche breve pausa di riposo. I lavoratori esterni erano più moderati , nel linguaggio,rispetto a quelli interni, infatti non bestemmiavano, non imprecavano ma pazientemente e serenamente lavoravano e concludevano la loro giornata.
Tratto da: “ Usi e costumi del popolo siciliano “ G. Pitrè ( 1889)
Queste notizie, così dettagliate e preziose, riguardanti il mondo delle zolfare, sono state fornite, al Pitrè, da Gaetano Di Giovanni.
ZOLFARE DI CIANCIANA
Foto di Agostino D’Ascoli