“Povera Isola, trattata come terra di conquista! Poveri isolani, trattati come barbari che bisognava incivilire! Ed eran calati i continentali a incivilirli … Calati tutti gli scarti della burocrazia; e liti e duelli e scene selvagge; e la prefettura del Medici, e i tribunali militari, e i furti, gli assassini, le grassazioni, orditi ed eseguiti dalla nuova polizia in nome del Real Governo; e le falsificazioni e sottrazioni di documenti e processi politici ignominiosi …”. “… Il popolo siciliano! Che n’ha avuto? Com’è stato trattato? Oppresso, vessato, abbandonato e vilipeso! Gli ideali del ’48 e del ’60? Ma tutti i vecchi, qua, gridano: Meglio prima, meglio prima”
(L. Pirandello, I vecchi e i giovani, pag. 77)
Il passaggio della Sicilia dai Borboni ai Savoia, con le sue speranze e delusioni, ha trovato nella letteratura numerosi testimoni e interpreti, che l’hanno rappresentato ognuno dal suo punto di vista. Fu chiaro a tutti che non s’era trattato, in definitiva, d’un processo di unificazione ma di una vera e propria annessione, che indusse i Siciliani a vedere nei “piemontesi” una nuova ondata di barbari “civilizzatori”, venuti un’altra volta a rapinare i tesori
dell’Isola. Delle speranze “perdute” furono interpreti, a vario titolo, autori del calibro di Giovanni Verga, Federico De Roberto, Luigi Pirandello, Giovanni Pullara, quisquinese, e Giuseppe Tomasi di Lampedusa.
I motivi del malcontento (nel 1866 la Sicilia votò contro il Governo) e della delusione furono molteplici e di ordine storico, politico e sociale. Per secoli la Sicilia era stata un regno con uno dei Parlamenti più vecchi d’Europa, che era stato mantenuto sempre in vita e, anche se svuotato di reali poteri, costituiva l’orgoglio dei Siciliani. Nel 1812 esso aveva votato una Costituzione liberale che re Ferdinando IV, divenuto 1° delle Due Sicilie, si affrettò a revocare subito dopo il Congresso di Vienna. E questo fu il primo tradimento che gli abitanti dell’Isola mai perdonarono ai Borboni, contro cui si ribellarono nel 1820 e nel 1848 quando alzarono la bandiera del federalismo nella speranza di un “armonico inserimento della Sicilia” nel Regno di Vittorio Emanuele che ne rispettasse l’autonomia politica. Ma “il giusto modo d’intendere l’annessione della Sicilia all’Italia” venne disatteso perché il timore di veder naufragare l’Unità appena raggiunta fu più forte di qualsiasi ipotesi di decentramento.
Quindi, “prevalse… la soluzione meno gradita ai Siciliani: quella dell’accentramento ancora più rigido e intollerante di quello introdotto dai Borboni dopo il 1816” Dal punto di vista economico-sociale le condizioni dei contadini, soprattutto nella Sicilia occidentale, non cambiarono granché e il bracciante continuò a dipendere, “angaricamente”, dal gabelloto mafioso. “Anche i terrieri ebbero ragione di lamentarsi per l’eccessivo fiscalismo del nuovo Regno che … aveva applicato alla rendita agraria del Sud – di gran lunga minore in rapporto a quella del Nord – le stesse aliquote di fondiaria, la tassa sui terreni; fu introdotta la ricchezza mobile sulle attività industriali e professionali e il focatico e il macinato” che venne considerato una tassa sulla miseria.
La maggior parte delle entrate tributarie veniva impiegata nel Nord.
Scrive il prof. Santi Correnti: “Per ogni cento lire esatte lo stato unitario spendeva 93 lire annue per ogni abitante del Lazio, 71,15 per ogni abitante della Liguria, solo 19,88 per ogni siciliano” . Pochissimi i soldi investiti dal nuovo stato in infrastrutture, mentre quelle poche attività produttive, generalmente artigiane e a conduzione familiare, che in qualche modo avevano potuto reggersi grazie al protezionismo borbonico, dovevano subire ora la concorrenza della nascente industria del nord, ben presto anch’essa protetta dal Depretis sempre a discapito dell’agricoltura meridionale, che dovette pagare il peso della guerra delle tariffe doganali con la Francia, verso cui erano diretti i prodotti ortofrutticoli. Se a tutto questo si aggiunge l’inconveniente della coscrizione obbligatoria, novità per i giovani siciliani, le cause del malcontento risultano ancora più evidenti e si spiegano anche le jacquerie.Alla crisi dell’agricoltura va aggiunta quella del settore solfifero, del quale la Sicilia per lungo tempo aveva tenuto il monopolio mondiale, ma che entra ben presto in crisi per la scoperta degli enormi giacimenti minerari americani. La conduzione delle zolfare, che Pirandello conosceva assai bene, non aveva nulla da invidiare all’arretrato sistema feudale e precapitalistico delle campagne, con uno sfruttamento degli addetti ai lavori che grida ancor oggi vendetta.
Ancora Nei primi anni ’90 del XIX secolo “l’Isola era attanagliata dalla disoccupazione e dalla fame” .
La politica. I nostri ineffabili politici: più li conosci e meno li apprezzi; rappresentanti di se stessi e non della popolazione di cui sono espressione. Áscari che in centocinquant’anni hanno pensato solo ad arricchirsi, a sistemare figli, nipoti, pronipoti, familiari, amici, amici degli amici, ruffiani, dando vita ad un clientelismo e a un “familismo” vergognosi, ignorando o facendo finta di non vedere la carenza di infrastrutture, il bisogno dia ammodernamento della nostra Terra, seminando invece –quando lo hanno fatto – cattedrali nel deserto. E dire che abbiamo avuto siciliani a capo dell’Esecutivo e un gran nugolo di ministri! Non immuni da peccato sono anche i rappresentanti che siedono a Sala d’Ercole, che non hanno saputo attuare i benefici previsti dallo Statuto regionale, che è più vecchio, addirittura, della Costituzione repubblicana.
Ma forse diceva bene il Poeta: ”Non ragioniam di lor, ma guarda e passa”! E’ meglio rifugiarsi tra le pagine della Letteratura, dove nessun autore mente a se stesso e dice veritàscomode che suscitano il riso di compassione dei potenti. Come sostiene Leonardo Sciascia nel lungo racconto “Il quarantotto” (in Gli zii di Sicilia):
“Mio caro Nievo – disse con affettuoso compatimento Garibaldi.”.
Era successo che il barone Garziano, delatore, nemico dei liberali, reazionario, dopo i successi dei Mille era diventato un patriota pronto a mettere se stesso e le sue sostanze a disposizione dei vincitori e trasformare l’Eroe dei due mondi da “brigante” in “generale” e a I. Nievo, che aveva affermato “quest’uomo ha per noi tutto l’entusiasmo della paura”, Garibaldi aveva risposto, appunto, con un sorriso compassionevole.
Che ne sapeva il giovane “poeta” dei giochi sottili della politica?! Alle sue insistenze “Garibaldi fece un gesto reciso -Torniamo alla poesia – disse”. Coevo dell’opera sciasciana è Il Gattopardo di Giuseppe Tomasi di Lampedusa, dove l’Unificazione nazionale è intesa come una “necessità storica” e dove il disincantato principe don Fabrizio Salina conduce un’analisi caustica della rivoluzione del ’60. Una rivoluzione di pulcinella, nella quale il vecchio ceto dominante, i Garziano di turno, è pronto a voltare gabbana per preservare atavici privilegi.
“Se non ci siamo anche noi quelli ti combinano la repubblica”. Con la “repubblica” mille cose sarebbero mutate e i cittadini, non sudditi, avrebbero tutti avuto pari dignità, almeno formalmente: diritti e doveri uguali per tutti. Una bestemmia la “repubblica”; quindi – aggiunge Tancredi, nipote del Gattopardo – “Se vogliamo che tutto rimanga come è,
bisogna che tutto cambi” .
Una rivoluzione di facciata per la quale s’era sostituito “l’organista senza cambiare né strumenti né musica: e a tirare il mantice dell’organo restavano i poveri” . Quei poveri che, spinti dal fascino di Garibaldi e dall’illusione che alla rivoluzione politica sarebbe seguita quella sociale, avevano dato entusiastica adesione ai Mille e talvolta anche la vita per la “Talia” e che a Bronte, in nome della libertà dalla miseria e prestando fede ingenua ai mille proclami rivoluzionari (come quello del 2 giugno, che prometteva la divisione delle terre demaniali e miglioramenti di vita per i contadini), avevano assaltato come fiume in piena municipio e palazzi baronali per cancellare le carte della schiavitù e vendicarsi dell’oppressione secolare seminando di vittime il percorso, tutto travolgendo nella rovina e sfogando in questo modo antichi rancori e rabbia secolare.
La risposta fu perentoria: Nino Bixio fece fucilare, attuando giustizia sommaria, alcuni rivoltosi mentre altri, dopo un lungo processo celebrato a
Catania, furono condannati a dure pene: “all’aria vanno i cenci” .
Gli avvenimenti del 2-5 agosto 1860 sono narrati in maniera “spassionata” e con la solita perizia da Giovanni Verga nella novella Libertà.
Ne I Malavoglia padron ’Ntoni, recandosi dai “pezzi grossi del paese” per evitare il servizio militare al nipote, “pregava e … strapregava per l’amor di
Dio di fargliela presto la repubblica, prima che suo nipote ’Ntoni andasse soldato”. Infatti, come diceva don Franco lo speziale, con la repubblica “tutti quelli della leva e delle tasse li avrebbero preso a calci nel sedere, ché soldati non ce ne sarebbero stati più…” .
Era questo il sentire delle masse popolari abbrutite da secoli d’ignoranza: “Adesso è finito il tempo delle prepotenze!… D’ora innanzi siamo tutti eguali!…” – dice, in Mastro don Gesualdo fra Girolamo dei Mercenari al barone Zacco .
Tempi nuovi reclamano uomini nuovi, cioè vecchi: ai gattopardi, che non vogliono per decenza uniformarsi, subentrano le avide iene, che ne erano i succedanei in società, e i nobili che riescono a riciclarsi, come Consalvo Uzeda, de I Vicerè di Federico De Roberto. Consalvo è un uomo cinico, privo di ideali e assetato di potere; si finge liberale e democratico per guadagnare un seggio nel parlamento del regno del quale si vede già ministro. Per lui “l’importante è non lasciarsi sopraffare […].Quando c’erano i Vicerè, gli Uzeda erano vicerè; ora che abbiamo i deputati, lo zio siede in Parlamento …”. “Un tempo la potenza della nostra famiglia veniva dai Re; ora viene dal popolo …La differenza è più di nome che di fatto…[…] e poi il mutamento è più apparente che reale. […] La storia è una monotona ripetizione. […] Le condizioni esteriori mutano; certo, tra la Sicilia di prima del Sessanta, ancora quasi
feudale, e questa di oggi pare ci sia un abisso; ma la differenza è tutta esteriore.[…] Il nostro dovere, invece di sprezzare le nuove leggi, mi pare quello di servircene!…” .
La condanna del fallimento risorgimentale non poteva essere più netta: per De Roberto, Pirandello e Sciascia gli ideali che avevano condotto all’Unità erano stati svenduti, le speranze di rinnovamento della società siciliana frustrate, il sogno infranto.
Per chi e cosa aveva combattuto il “vecchio” pirandelliano Mauro Mortara? Con convinzione il drammaturgo agrigentino fa esclamare a donna Caterina
Laurentano “Meglio prima! Meglio prima!” ; e Sciascia “Quello che c’è ora … fa rimpiangere i sottintendenti del Borbone” .
Il popolo siciliano aveva bisogno di essere “conosciuto e amato”, di essere ascoltato, “educato e allevato”, soddisfatto in bisogni che si sono incancreniti e dai quali ancor oggi non si riesce a venir fuori. La forbice tra Nord e Sud non s’accorcia e col Federalismo, che pure al momento dell’Unificazione nazionale era la massima aspirazione degli Isolani, le cose non faranno che peggiorare perché ognuno dovrà “friggersi col suo olio”. Ma, in fondo, forse è meglio così: vedremo un’altra volta, e questa volta si spera in maniera definitiva, di cosa è capace (o incapace?) la nostra classe dirigente. “Solo chi cade può risorgere”. Sarà vero? Quante volte dovrà ancora cadere il popolo siciliano o ha ragione Il Gattopardo quando afferma che “i siciliani non vorranno mai migliorare per la semplice ragione che credono di essere perfetti”? Veramente “la loro vanità è più forte della loro miseria”?
Eugenio Giannone
FINE PARTE I.