Salvatore Di Marco Sopra fioriva la ginestra, Alessio Di Giovanni e la Sicilia delle zolfare,
Nuova IPSA Editore, Palermo, 2006
Il ritorno dei pifferi, recensione di Eugenio Giannone
In: AA.VV, Le parole che contano, a cura di Aurelia Ambrosiani, Fondazione ThuleCultura, Palermo 2008
Per tutto l’Ottocento la Sicilia fu il maggior produttore ed esportatore di zolfo nel mondo. La commercializzazione del biondo minerale, piuttosto che riverberarsi sulle decine di migliaia di addetti ai lavori, servì ad arricchire una classe di proprietari assenteisti, affittuari e gabelloti vari, spesso stranieri, sempre parassiti, che fecero delle angherie, dello sfruttamento sistematico e bestiale dei lavoratori il loro unico credo.
Quelle ingiustizie, lesive della dignità umana, non erano il prodotto di un cieco destino ma il risultato d’un connubio perverso tra mondo economico e politico con le loro ciniche leggi.
La visione di simile mondo ctonio non poteva lasciare indifferenti e l’unico modo per descriverlo era ricorrere alla metafora dell’inferno, come per primo fece Guy De Maupassant che nel capitolo dedicato alla Sicilia della sua La vie errante così scrive: “…se il diavolo abita un vasto paese sotterraneo, in cui fa bollire i dannati, è in Sicilia che ha eletto il suo misterioso domicilio”; “Le vallate grigie, gialle, pietrose recano il marchio della riprovazione divina”, per concludere che lo sfruttamento minorile era una delle cose più riprovevoli e penose che si potessero vedere.
Le tristi condizioni di vita e di lavoro degli zolfatari (picconieri, spisalori, scarcaratuta, acqualori, e soprattutto carusi e caruse – l’anello più debole della catena di lavoro in miniera) attrassero l’attenzione di poeti e scrittori che le ritrassero con accenti di viva e solidale compartecipazione alle sofferenze; anche quegli scrittori che allo stesso zolfo dovevano una condizione sociale agiata, come nel caso di L. Pirandello che descrisse lucidamente la zolfara in alcune novelle (su tutte Ciàula scopre la luna) e nel romanzo “I vecchi e i giovani”. Alessio Di Giovanni la definì ‘nfernu veru e carnàla, cioè carnaio, non di morti ma di vivi. Era chiaro agli osservatori neutrali e meno frettolosi come giornalisti, sociologi, antropologi, studiosi, che lo sfruttamento intensivo dei lavoratori del latifondo e, quindi, della zolfara, che di quel mondo era sincrono (la zolfara veniva coltivata), con le loro condizioni subumane avrebbe innescato un’esplosione che non avrebbe tardato ad incendiare l’Isola, come sembrò in occasione dell’esaltante ed effimera stagione dei Fasci, che si concluse con la proclamazione dello stato d’assedio e la condanna a secoli di carcere degli esponenti più rappresentativi del movimento.
E’ chiaro pure, come sostiene L. Sciascia, che senza l’avventura dello zolfo non ci sarebbe stata l’avventura dello scrivere. Molti ne avrebbero scritto in ogni caso, al di là dell’insuccesso dei Fasci, che per V. Consolo diede vita a quella letteratura. A quel mondo senza luce, ingentilito nel suo deserto di ginisi dal pallido giallo della ginestra, e ad Alessio Di Giovanni ritorna con un poderoso saggio dal titolo Sopra fioriva la ginestra, Alessio Di Giovanni e la Sicilia delle zolfare (Nuova IPSA Editore, Palermo, 2006) Salvatore Di Marco, che, con il consueto acume critico, razionalità d’analisi e di scrittura, esamina i presupposti teorici su cui si fonda la lirica di giovannea, a cominciare dal “Saru Platania”, dove il poeta ciancianese sottolineava come in Sicilia mancasse (e siamo al 1896) “ancora la voce che si faccia banditrice del grido di dolore che dai campi desolati, dalle cupe miniere, si eleva di quando in quando minaccioso e pietoso allo stesso tempo”, all’Ode Cristu, ai Sonetti della zolfara, al dramma Gabrieli, lu carusu.
Prima di dare inizio al suo excursus, lo studioso palermitano passa in rassegna le analisi di economisti e storici ad inquadrare ermeneuticamente la produzione del Di Giovanni, che gli appare come la voce più alta e sofferente del latifondo e della zolfara fonti d’iniquo patimento sociale, che seppe tradurre in un “autentico e fedele segno letterario. Quella del Di Giovanni è “cruda e drammatica testimonianza” di destini umani da restituire a dignità”, un “documento di alta umanità, pagine importanti della storia letteraria siciliana”.
Per Di Marco il Di Giovanni, animato da una forte tensione etica, “non ha mai perduto di vista l’unità del tema della sofferenza umana, delle condizioni di miseria della sua gente” sia che zappasse sia che sprofondasse sottoterra; il suo com-patimento sincero delle sofferenze di quegli sventurati non può e non deve sorprendere ove si tenga presente la sua storia personale e familiare, la sua formazione, la sua fede religiosa, le sue idee: “aspetti che concernono la libertà dell’autore e la sua coscienza d’uomo”, di membro di una famiglia di proprietari di miniere che, contrariamente ad altre, coltivò delicati sentimenti verso i suoi dipendenti “nel rispetto della loro dignità in piena e convinta solidarietà” verso le loro sofferenze.
Sotto il profilo squisitamente letterario, pur stigmatizzando le pecche della produzione giovanile dell’autore di Voci del feudo, il critico palermitano, chiarito che molto della civiltà della zolfara era nel DNA del ciancianese, non può esimersi dal sottolineare l’ispirazione sociale dei Sonetti della zolfara che, integrati dalla silloge Nni la dispensa di la surfara, da alcuni sonetti di A lu passu di Giurgenti e dalle pagine del Gabrieli, – dove protagonista non è quel caruso ormai grandicello ma la zolfara con le sue voci – costituiscono la documentazione fondamentale per ricostruire le basi testuali della poetica della zolfara “apprezzabili per vigoria di dettato e forte animazione sociale”. Lo colpisce della produzione digiovannea sui surfarara lo stile scarno dei singoli componimenti, il loro linguaggio scabro, disadorno, “il vocabolario che conferisce al dialetto un dettato essenziale ed austero”. Se altro il Di Giovanni non avesse scritto, sarebbero bastati i sei sonetti ad inserirlo tra le voci più alte della letteratura siciliana in genere e della zolfara in particolare. In quei versi non ci sono segni di cedimento retorico – continua il Di Marco – né veemenza populista o accenti melodrammatici; il Di Giovanni ebbe il merito di evitare che la realtà antropologica e culturale della zolfara si trasformasse in mito e d’avere rivelato il mondo del latifondo e perciò della zolfara e ne rappresentò il dramma umano e sociale, facendo, quindi, opera di denuncia. Eppure, stando ad alcuni critici dell’una tantum letterario il Di Giovanni non avrebbe inteso la portata rivoluzionaria e la carica ideale dei Fasci e non avrebbe fatto suo il dramma collettivo, facendosi portatore di una filosofia della rassegnazione. Per il nostro critico i versi dell’aedo ciancianese valgono più delle denunce di sociologi e studiosi, antropologi e delle commissioni parlamentari.
Le critiche di G. C. Marino e del Nicastro gli appaiono pregiudiziali, ingenerose e fuorvianti, presumendo i due illustri studiosi di giudicare la produzione poetica del Di Giovanni a posteriori, alla luce della loro ideologia, come se lo scrittore, prima di accingersi a scrivere e descrivere, dovesse munirsi d’un manuale di dottrine politiche. “Non è compito del poeta assoggettare la sua vena creativa, allora improntata al naturalismo verismo, alle ragioni della sociologia, della politica o della morale”, il poeta risponde solo a se stesso, alla letteratura. Gli storici facciano gli storici, gli economisti si occupino del loro campo d’indagine, quanto meno abbiano la compiacenza di documentarsi adeguatamente prima di emettere sentenze. Il tiro adesso si sposta su Vincenzo Consolo, per il quale “la scelta del dialetto”, in Alessio Di Giovanni, “rimase alla fine una scelta sentimentale, una chiusura e nel sentimento e nel linguaggio, l’uno e l’altro stagnanti, portatori di storture, di vizi, di rassegnazione”; sempre secondo l’illustre scrittore fu colpa del di Giovanni avere propugnato una letteratura della rassegnazione. Quando Consolo si lascia andare a simili giudizi è chiaro che predica da una sponda che con la letteratura ha poco da spartire e Di Marco li respinge sdegnato. Sappiamo che per l’autore de Le pietre di Pantalica “l’innocenza in letteratura non esiste”, ma nel caso specifico ritengo, con Di Marco, che abbia sbagliato personaggio per giudicare il quale i suoi metri ideologici sono inopportuni , inadeguati e fuorvianti. Simili (pre)giudizi, che investono la sfera privata del poeta Di Giovanni, presuppongono una conoscenza sommaria di quell’autore e non molto stratificata della storia isolana, dove è sempre mancata la figura dell’eroe positivo.
Se Il Di Giovanni e altri scrittori descrissero una realtà di rassegnazione e fatalismo non inventarono assolutamente nulla, non erano conservatori né reazionari, per il semplice fatto che l’apatia e la rassegnazione sono tra i nostri caratteri distintivi. Basterebbe ricordare l’ormai famoso “Cu’ cci lu fici fari?”.
Quindi narratori della rassegnazione e non cultori della filosofia della rassegnazione. A me questa querelle ne richiama alla mente altre due: quella che vide implicato Carlo Marx a proposito di ”Filosofia della miseria e “Miseria della filosofia” e l’altra, più recente, che ebbe protagonis
ti E. Vittorini e P. Togliatti circa i famosi pifferi della rivoluzione, con Consolo nel ruolo dell’esponente comunista, contrario alla libertà dell’artista. Bisogna convincersi fondamentalmente di due cose: che la letteratura, anche quella della zolfara, è solo letteratura e non “un fatto politico, cioè economico” e che non sono stati gli scrittori o le civiltà che si sono succedute in Sicilia ad avere recato danno alla nostra gente impedendone l’affrancamento, ma la barbarie del baronaggio e della mafia.
Ma questi temi non sono letterari e per essi esistono altri testi di storia, economia, sociologia etc. Ben vengano le critiche, anche feroci, -sembra dire il Di Marco – purché investano l’aspetto letterario d’un autore e solo quello. Forse, conclude il critico palermitano, Consolo è “disorientato dalla vastità, dalla sensibilità, dagli esiti diversi della letteratura dello zolfo” e dimentica il giudizio del suo – e nostro – amato Sciascia che, ne La corda pazza, aveva affermato che Alessio Di Giovanni meglio di chiunque altro visse il travaglio e la tragedia della miniera.*** “Sopra fioriva la ginestra” è il libro che mancava nel panorama saggistico sulla letteratura dello zolfo e sulla produzione digiovannea per la puntualità dell’esegeta e il puntiglioso rigore critico del suo autore, che riesce ad offrirci uno spaccato socio-economico e storico-culturale della temperie siciliana nella quale si formò il poeta ciancianese e fa soprattutto giustizia di certi luoghi comuni e frettolosi giudizi (non solo su A. Di Giovanni) che vengono dal Di Marco smontati alla luce di una conoscenza profondamente stratificata della letteratura isolana e digiovannea in particolare.
Nemmeno la polemica, condotta con passione ma con stile, traborda e perevale il tono persuasivo, colloquiale. Anche nelle due “Postille” nelle quali il nostro poeta e critico palermitano indaga l’influenza che il verismo di G. Ragusa Moleti possa avere esercitato sul Di Giovanni e sul suo addio al fonografismo; e confuta talune affermazioni del Consolo che aveva, quasi, accusato Mario Rapisardi di menzogna (a proposito del Canto dei minatori) e di “incomprensione” riguardo agli “eventi storici, sociali e politici” del 1893-94 in Sicilia. Chiudono il volume una ricca bibliografia sull’argomento trattato e una preziosa postfazione di Rita Verdirame nella quale l’illustre studiosa catanese riconosce al Di Marco indubbie “qualità di critico, del ricercatore e dell’esegeta”; gli attribuisce il merito di una “complessiva recapitolatio dell’attività speculativa del Di Giovanni sostenuto da una solida informazione storica su tutta la vicenda umana e letteraria del Di Giovanni”.
“Sopra fioriva la ginestra” – continua la Verdirame – è “un saggio innovativo” in chiave storico-demologico-culturale di assoluta pregnanza documentaristica”, assolutamente necessario per la “collocazione di un poeta come A. Di Giovanni”, la cui opera fu intessuta di istanze sociologiche ed “implicazioni economiche, politiche e risvolti antropologici ed esistenziali”. Quindi un prezioso strumento di rivisitazione critica del quale siamo particolarmente grati all’Autore.