Salvatore di Marco – Cu Rimita Menti


Quasi a voler celebrare le nozze di diamante con la poesia, ecco,dopo una distrazione durata circa un quindicennio, la nuova raccolta poetica di Salvatore Di Marco intitolata  “Cu rimita menti”. La lunga pausa è da ascrivere agli impegni molteplici di Di Marco quale giornalista, editorialista, conferenziere e soprattutto saggista, come si addice al più profondo conoscitore della produzione letteraria siciliana in lingua e in vernacolo.
   Di Marco ha iniziato a poetare quando ancora portava i calzoni corti e giovanissimo ha fatto parte del Gruppo di Poesia Alessio Di Giovanni, che riuniva  poeti siciliani impegnati nel rinnovamento della poesia dialettale nella nostra Isola.
   Tra le numerose raccolte ricordiamo Cantu d’amuri (1986), L’acchianata di l’aciddara (1987), Li palori dintra (1991) e La ballata di la morti (1995). Più volte antologizzato, di lui si sono occupati i maggiori critici nazionali che gli riconoscono originalità e autorevolezza.


   Cu rimita menti ci pone di fronte ad una poesia moderna che però, pur svolgendosi nell’ambito della poesia nazionale, viene espressa in un’altra lingua, a voler ribadire quasi e riaffermare l’orgoglio dell’appartenenza e la radicalità alla terra in un’epoca in cui modernizzazione selvaggia e globalizzazione ci stanno rendendo anonimi.
   La silloge, afferma Enzo Papa nella Prefazione, “è straordinaria testimonianza di continuità e nello stesso tempo di superamento della grande tradizione letteraria siciliana, con esiti espressivi che … rivitalizzano la parola poetica restituendole sangue e calore…”. C’è, infatti, nella raccolta lo scavo della parola; la ricerca della parola primigenia, dalla quale tutte discendono e che tutte comprende e che racchiude l’essenza del dire e del fare, parola da intendere nella sua pienezza di significato e che, perciò, acquista un notevole valore simbolico, evocativo e una sicura musicalità.
    Tra i nuclei tematici: la contemplazione pacata, serena della natura in un cosmo d’aria, di luce, di colori, fiori e uccelli cui spesso, nella raccolta, il Poeta si rassomiglia, definendosi ora “aceddu nivaloru”, ora “aceddu pi l’aria””e poi “piddirinu (pellegrino) alla ricerca d’infinito, di conoscenza e d’amore da dare e ricevere; fa, tuttavia, capolino un sottile velo di malinconia che ne lenisce la vena allegra e ironica: troppi i riferimenti alla sera, al tramonto, inteso in maniera simbolica. Tale simbolismo rimanda ad autori francesi e al Pascoli (es. “Il gelsomino notturno”). Emerge preponderante l’amore per la vita, la meditazione sull’esistenza che mette in luce i due aspetti della personalità del Poeta: uno aperto (“finestra senza pirsiani”), l’altro riservato, una volta figlio del sole, l’altra della luna e c’è il poeta che sa apprezzare e cantare le gioie semplici della vita, guardarsi attorno con “rimita menti”. Tradurrei quel “rimita” non con romita o solitaria ma con sgombra, che sa di libertà, di desiderio d’evasione (Haju lu sversu stasira / haju la malincunia / Lu cori pazzu / e la menti … ca nun s’arrisetta).
   Al Poeta che ci appare stanco e si sente ancora “aceddu a la strania” rispondiamo che “nun sta scurannu”: domani sarà ancora Pasqua e Natale e splenderà di nuovo il sole.
   (Anche su La Voce di Cianciana, aprile 2010)

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