GIUSEPPE TAMBURELLO
Scrittore della nostra terra
A cura di Paolo Cottone – Massimo Lombardo ed., Agrigento 2010
Presentazione di Eugenio Giannone
Il libro raccoglie gli atti del Convegno di studi sulla vita e l’opera di Giuseppe Tamburello (Cattolica Eraclea, 1868 – Realmente, 1942), svoltosi il 31 maggio 2008 a Realmente (AG), Città della Scala dei Turchi, e contiene, tra le altre cose, le relazioni dei Proff. Paolo Cottone e Salvatore Di Marco.
Quel “nostra” del sottotitolo o della denominazione sta lì a ribadire l’orgoglio dell’appartenenza, delle nostre radici etno-antropologiche in un periodo in cui la televisione, prima, e internet e la globalizzazione oggi ci stanno completamente omologando.
Guardate i nostri giovani: sembrano tutti figli della TV e di internet, parlano una lingua che non si sa se è Italiano, Siciliano, Inglese od Ostrogoto. Qualcuno all’Università studia lingua per il web. Chi parla il Siciliano vero e, soprattutto, chi lo scrive?
Il dialetto è il marchio dell’appartenenza, il nostro segno distintivo; è la lingua che abbiamo appreso poppando dal seno materno ma bevendo, assieme a quel latte, abbiamo ricevuto il retaggio dei padri, la storia di ciò che siamo stati e siamo. Siamo Europei, è vero! Ma io mi sento un siciliano d’Europa; son fiero della mia sicilianità e, quantunque abbia insegnato Letteratura italiana per 35 anni e ami molto la nostra lingua e i suoi autori, non perdo occasione di relazionarmi in siciliano, perché esso mi riporta alla mia gente, alle mie radici, alla mia, alla nostra Terra.
Ma parlare è un conto, scrivere in siciliano un altro.
Il fatto è che, quantunque, il Siciliano abbia tutte le caratteristiche d’una lingua, e lo è, non ha una sua grammatica con delle regole e un codice ortografico, per cui ognuno, colto o non colto, si sente autorizzato a scrivere come meglio gli pare, inserendo ad inizio di parola o nel suo corso raddoppi di consonanti, aggiungendo o togliendo H, utilizzando la Z al posto della S, inserendo apicetti, altri segni diacritici e così via, rendendo il Siciliano, o meglio i “siciliani” scritti – perché ognuno usa il suo vernacolo – una grande babele grafica.
Un unico sistema ortografico sarebbe necessario e urgente e quale potrebbe essere questo sistema non sta a me dirlo, non ne ho l’ autorevolezza. La lingua e, quindi, il modo di scrivere li impongono i grandi scrittori e poeti. E’ alla loro lezione che bisogna rifarsi.
In generale i modi di scrivere nella nostra lingua siciliana sono due: quello etimologico e quello fonografico.
Quello etimologico affonda le radici nella nostra storia letteraria a partire dalla Scuola poetica siciliana di Federico II ed è quello che oggi è prevalentemente usato.
L’altro, il fonografismo, è la tendenza a riprodurre graficamente i suoni d’una lingua ed è un argomento ancor oggi molto dibattuto, soprattutto nei paesi dell’America latina, dove ognuno vuol parlare e scrivere il “suo” spagnolo.
Il fonografismo fiorì in piena stagione veristica, tra il 1890 e il 1910, quasi a voler dare consistenza all’affermazione del Verga per il quale l’opera d’arte deve sembrare essersi fatta da sé. Non era possibile far parlare, per esempio, i nostri contadini o zolfatari in italiano o in un siciliano italianizzato. La loro lingua sarebbe apparsa ridicola. E si scelse questa via, radicale, per cui avremo dei termini che se effettivamente riproducono la vera pronuncia nostra: esempio. Sccurssuni (due C e due S) Sttatua (due T), Rroma o Rre (due R iniziali), Sppirddi (due P e due D) e altro, sono difficili da leggere.
Al fonografismo aderirono autori d’un certo spessore e tra loro il ciancianese Alessio Di Giovanni e il realmontano Giuseppe Tamburello, che erano legati da profonda e reciproca stima.
Il primo fonografista fu il pittore toscano Garibaldo Cepparelli, che nel 1896 pubblicò Fonografie valdelsane, curate da Orazio Bacci cui si deve la coniazione del termine. Per la cronaca, ricordo che la visione d’un Cristo del pittore di San Gimignano ispirò l’ode siciliana Cristu al Di Giovanni, opera che segna l’abbandono del fonografismo da parte del poeta ciancianese (1905). Per Tamburello l’avventura fonografica durò più a lungo e questa fu forse una delle cause del suo declino repentino.
Ma torniamo al testo fortemente voluto dal Comune di realmente per onorare la memoria di questo suo figlio. Si tratta d’un bel testo.
Interessante la Presentazione del Sindaco, ing. Farruggia, le cui parole non sono quelle solite, di circostanza; si nota subito che si è lasciato coinvolgere anche emotivamente perché crede “nella cultura come strumento per delineare con maggiore evidenza i contorni dell’identità” sua e degli amministrati e “come coscienza di sé, dei propri limiti e delle proprie possibilità”. L’ing. Farruggia si mostra convinto, come noi, che la riscoperta delle nostre radici – e Sull’aia-Fonografie realmontane del Tamburello ce lo consente – è elemento fondamentale per capire chi siamo e dove vogliamo andare, è alla base “di ogni progresso morale e civile”. Il Sindaco ha capito, anche e soprattutto, che un popolo che non onora i suoi poeti e scrittori è condannato all’anonimato perché affonda le sue radici nel nulla.
Apprezzabile anche l’intervento del prof. Salemi, che ha fatto un lavoro oscuro ma encomiabile: è la sorte degli assessori, in primis di quelli alla cultura, ed ha concorso alla riscoperta del Tamburello, convinto che la conoscenza dell’opera di un autore è strumento non indifferente per riflettere sull’importanza dei luoghi, dei suoni, dei colori, dei sapori, sui costumi di una comunità”.
Giungiamo al saggio del prof. Cottone. Bella penna! Ha saputo far rivivere con grande maestria e garbo e con un linguaggio semplice ma preciso, attento alle sfumature in un saggio impeccabile la figura e l’opera di del Vs. Direttore. E’ come se avesse riscritto le fonografie realmontane, così grandi appaiono l’amore e la passione con i quali ha cercato e poi studiato l’opera del Tamburello. Ha la grande virtù di prenderci per mano e guidarci per le strade paesane facendoci scoprire prima il personaggio Tamburello con la sua grande umanità, col suo acuto senso di osservazione e la sua grandezza d’uomo e di artista, e poi la gran massa dei figli del popolo che ogni giorno si spezzano la schiena per un tozzo di pane amaro. E’ un caleidoscopio di persone, di tipi, uomini e donne, giovani e vecchi, che in un gradevole amarcord ci trasporta nel palmento, sull’aia, in chiesa, tra contadini in stato d’agitazione per la spartizione delle terre, tra crocicchi di comari, di lavoratori che discutono di guerre e di fame, di giustizia, di malannate e di speranze, di miracoli e miscredenze in una fede elastica, di spigolatrici e altre costumanze, di fuitine e latinorum. Sembra proprio di vederli questi realmontani d’un tempo e ascoltare il loro cicaleccio musicale con le sue tipiche e colorite espressioni, magistralmente riprese dal Tamburello. Il ritratto che del Tamburello il prof. Cottone ci presenta, delineandone il profilo socio-culturale e inserendolo nel contesto culturale del suo tempo, in un’epoca dolorosa ed eroica, è quello d’un gentiluomo d’antan, un padre buono, che ama il bello e che ha onorato questa comunità fissandone la storia in pagine palpitanti e con vivezza icastica e potenza evocativa, con un linguaggio secco ed essenziale, cadenzato sul ritmo del parlato, ricco di sonorità; il profilo d’un uomo saggio, dalla giovinezza travagliata, sincero osservatore della natura e del popolo accanto al quale amava stare e per il quale soffriva per le vessazioni cui da secoli era sottoposto.
Anche se non abbiamo avuto l’opportunità di leggere le Fonografie realmontane del Tamburello, l’intervento del prof. Cottone ce le rende familiari, appetibili. Ci incuriosisce. Chiaramente vorremmo leggerle, studiarle e per questo motivo ne auspichiamo la ristampa, perché senza testi a disposizione degli studiosi ogni intervento non potrà che essere monco o improvvisato.
Il prof. Di Marco non si smentisce mai: puntuale, preciso, spietato nelle sue analisi e non può che essere così, visto che ha chiaro davanti a sé tutto il quadro della produzione letteraria isolana, in lingua e in “dialetto”. E chi, meglio di lui, poteva mettere un po’ d’ordine, puntualizzare su un fenomeno quale il fonografismo, che seppure importante, è sempre marginale rispetto a tutto il nostro contesto letterario?
Egli ne fa risalire i prodromi agli inizi degli anni ’60 del XIX secolo, quando, auspice la scrittrice friulana Caterina Percoto, ci si comincia ad interessare della vita quotidiana del popolo e nascono gli studi demopsicologici e “s’approfondisce il confronto sui criteri grammaticali e ortografici di trascrizione di tutti i testi raccolti dalla viva voce della gente”.
Prese campo nel periodo l’orientamento di trascrivere le parlate dialettali in maniera più fedele possibile ai suoni e fu in questo fervido clima culturale che si inseriscono le fonografie del Cepparelli, la cui opera di certo venne conosciuta dal Tamburello e dal Di Giovanni, influendo più sul primo che sul secondo, volto più che altro in quegli anni al felibrismo provenzale. Infatti quando il pittore toscano pubblica la sua opera il Di Giovanni aveva già dato alle stampe il Maju sicilianu (1896), che raccoglieva poesie scritte anche negli anni precedenti. Non era stato il Cepparelli ad influire su di lui ma un altro pittore toscano, Niccolò Cannicci che con i pennelli aveva ripreso varie scene della vita campagnola. Per sua ammissione il Di Giovanni sostituì ai colori e ai pennelli calamaio e penna. Fu seguace invece del del Cepparelli – “ma in tutta autonomia di stile e ragioni letterarie” – Giuseppe Tamburello, come ricorda il poeta ciancianese nel saggio introduttivo alla II edizione delle Fonografie valdelsane (1896), dove afferma che in Sicilia Cepparelli “trovò subito i suoi più amorosi critici e un veemente seguace in Giuseppe Tamburello, autore delle scultorie fonografie Sull’aia”.
Ma se vogliamo, il fonografismo fu un fatto di secondaria importanza perché i grafemi sono segni convenzionali e per rendere tutti i suoni dovremmo avere un alfabeto infinito. Infatti, per restare alla sola lingua nazionale, una parola scritta
in perfetto italiano suona diversamente se pronunciata da un milanese o un sardo, da un veneto o da un pugliese e così in Sicilia da un paese all’altro. Prendiamo la parola fiore: in siciliano, il termine, si pronuncia con l’aspirata, come tutti sappiamo, ma si scrive ciuri, sciuri, hiuri, chiuri; qualcuno ricorre al χ greco, che non esiste nel nostro alfabeto.
C’è quindi “tra la parola scritta e quella detta uno scarto fonico che nell’ortografia non è rappresentato”.
In ogni caso, per poeti e scrittori dialettali colti la questione non si è mai posta perché essi hanno usato il metodo etimologico. Quello che interessa Cepparelli, e con lui il Tamburello, era la parlata quotidiana della gente che bisognava nobilitare e gli esiti, tutto sommato, sono stati positivi se si considera la freschezza e la musicalità che sono riusciti a rendere con la trascrizione, per non parlare della loro importanza storico-documentaria.
Naturalmente alla base di queste affermazioni c’è un approfondito studio che sarà sicuramente ripreso perché Di Marco è così. Gli accenni alla Percoto, al Franceschini, all’Alfani, al Bergmann, al Cecioni e all’IPA e ai vari linguisti e glottologi moderni non rimarranno tali. Il personaggio è così: da un saggio di poche pagine sul rapporto Alessio Di Giovanni-zolfara, è riuscito a dar vita a un libro di 230 pagine, intitolato Sopra fioriva la ginestra (Palermo, 2006).
Continuando nell’analisi, l’attenzione di Di Marco si sposta sulla parabola esistenziale e culturale del Tamburello e sul suo sodalizio umano col Di Giovanni, del quale conobbe e apprezzò anche il padre Gaetano. Tra i due ci fu una profonda amicizia e una fitta corrispondenza che s’interruppe solo alla morte del Realmontano.
Tamburello viene anche inserito dal prof. Di Marco nel suo contesto socio-culturale e definito “radicale tempre spirituale e intellettuale”, dai costumi sobri e dall’estrema riservatezza, che non fu la causa ultima del suo repentino oblio.
Il Direttore (Tamburello era Direttore Didattico) mostrò un grande amore per la cultura popolare della sua terra, studiò con autentica passione civile la letteratura sociologica e politica delle zolfare e del feudo siciliani, formandosi dal punto di vista letterario alla lezione del naturalismo e del verismo, acquisendo una visione europea della cultura e della civiltà popolare.
Indubbiamente, continua il Di Marco, egli partecipò con Martoglio, il Di Giovani e altri al rinnovamento letterario di fine ‘800 (Nuova Scuola poetica siciliana) e notevoli appaiono l’autonomia e l’originalità del suo lavoro rispetto al Cepparelli.
Quanto, infatti, le fonografie del Toscano sembrano elegiache, tanto quelle del Tamburello sono “di intensa drammaticità umana e sociale”.
Sono “siciliane” o meglio, come sottolinea il nostro critico, “girgentane”: nei sentimenti, nei pregiudizi, nelle credenze, nel linguaggio.
Egli seppe affermarsi come narratore proprio perché seppe leggere attentamente nell’animo della sua gente, conferendo alla sua opera un’impronta inconfondibile.
Ma quest’opera andrebbe indagata in tutta la sua complessità e non solo nelle fonografie e negli scritti dedicati ai Di Giovanni, non si può parlare d’un autore per sentito dire o letto in altri. Urgono i testi, soprattutto per quanti ci seguiranno, perché “nun si po’ jiri a ligna senza corda”!