Il fiume Platani tra Storia, leggenda e letteratura

                                 Il fiume Platani tra Storia, leggenda e letteraturacon cenno a Flora, Fauna e Archeologia                           
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                                                                                                                                                   di Eugenio Giannone

 Icaro con le sue ali di cera, Dedalo e il labirinto, Minosse e il Minotauro. Cocalo e la mitica Kàmicos: c’è un filo, avvolto tra storia e leggenda, che lega questi personaggi[i]. E una terra impareggiabile.

   La vicenda di Minosse, Dedalo e Cocalo si svolge qui, in questa nostra splendida valle, cui fanno da cornice i Monti Sicani e che i fiumi Himera-Salso, ad oriente, e Belice, ad occidente, delimitano dandole una fisionomia unica, che la rende quasi un miraggio al visitatore che, venendo da Palermo, dopo essersi lasciato alle spalle rocca Busambra e le distese monotone del latifondo cerealicolo, la scopre improvvisa dalla corona montuosa che con i suoi boschi circonda S. Stefano Quisquina e fa quasi trattenere il fiato, spaziando la vista fino all’azzurro mare africano.

   Lo stupore dei visitatori tedeschi, inglesi e francesi del ‘700-800 dovette essere sicuramente identico a quello di Minosse II, re di Creta, che era giunto via mare in Sicania a vendicarsi di Dedalo (o a conquistare l’Isola per le sue ricchezze?).

   Il re cretese era arrivato sotto le mura di Kamicos solcando le acque dell’Halycos che, allora, per quelle piccole imbarcazioni, era navigabile per 14 miglia.

   Ricchi d’acqua dovevano  essere pure il Magazzolo e il Verdura-Sosio.

   Quelle “autostrade” d’acqua attraversavano terreni fertilissimi, ricchi di boschi, e presentavano miniere di salgemma[ii], qua e là zolfo affiorante ed animali ormai scomparsi (lupi, orsi) ma rimasti nell’immaginario collettivo.

   Era facile intricarsi in una vegetazione fittissima, vedere librarsi in volo i signori dell’aria, come oggi il nibbio, il capovaccio, l’aquila del Bonelli, e guardare commossi peonie e altri fiori che occhieggiano sulle pendici dei monti e sui prati. E non mancavano le sorgenti.

    Ancora oggi questi luoghi mantengono una peculiarità tutta propria,  unica, un fascino particolare; forse vi sorgerà il Parco dei Sicani, forse la gente non andrà più via, forse…. Comunque un angolo di Sicilia dove l’elemento naturale si sposa felicemente con l’elemento archeologico e con la presenza umana che, in qualche modo e in parecchi suoi tratti, ha saputo preservarlo senza stravolgerlo irreparabilmente.

  Al centro di questo bellissimo e variegato territorio scorre il fiume Platani, che nasce presso il Pizzo della Rondine, attraversa il territorio di Cammarata e Castronovo, dove riceve le acque del fiumicello San Pietro e dopo essere diventato salato e aver percorso il territorio di altri comuni[iii], sfocia nel Mediterraneo presso Eraclea Minoa.

   Questa antica città, della quale ammiriamo numerose emergenze archeologiche, ed Alesa Comite, che sorgeva nell’agro castelterminese, segnavano i confini tra i possedimenti dei Greci di Akragas (Agrigento) e quelli dei Cartaginesi, padroni di gran parte della Sicilia occidentale.

   Nel suo primo tratto il fiume divide in due una valle dove poneva in movimento numerosi mulini; presso San Biagio P. riceve le acque dolci del Turvoli.

   Vito Amico informa che era “copioso in pesca, ed appresta(va) principalmente saporitissime anguille, alose, cefali e pesciolini minuti in grande abbondanza”[iv]. Oggi purtroppo, a causa dell’abbandono e dell’inquinamento cui il fiume è stato sottoposto nei decenni scorsi, di quelle anguille non rimane che un pallido ricordo.[v]

   Le sue sponde erano collegate da pochi ponti in pietra, per cui spesso per attraversarlo, fino a metà ‘800, bisognava servirsi dei marangoni, poveri disgraziati che, spinti dal bisogno, in cambio d’un modesto obolo, caricavano i viandanti sulle spalle e li depositavano sulla sponda opposta, sfidando la furia del fiume che, nei periodi di piena, come tutti i corsi d’acqua che hanno carattere torrentizio, è pericolosissimo.

   Ne fa una superba descrizione Alessio Di Giovanni[vi], ma sul poeta valplatanese e il suo fiume torneremo più avanti.

   Il nome Platani è di origine latina popolare; gli Arabi lo modularono in Iblâtanu; mentre gli antichi Greci lo chiamavano Halykòs, cioè salato, e lo risalivano alla ricerca di sale sulle loro navi che scivolavano sull’acqua (erano, in pratica, dei grossi zatteroni), la cui portata era maggiore rispetto all’odierna; ma diverse erano le condizioni climatiche generali della Sicilia, con pochi abitanti e una rigogliosa vegetazione che lambiva le sponde del Platani.

   Questa affascinante arteria è stata la culla della civiltà indigena.

 

 

   Parlare del Platani è narrare la storia della sua gente: i Sicani.

   Secondo Tucidide e Dionisio d’Alicarnasso[vii], essi provenivano dall’Iberia e traevano il loro nome dal fiume omonimo della terra d’origine o dal re che li guidò in quest’avventura. Tale supposizione mi appare inverosimile e, tra l’altro, in Spagna mai nessun corso d’acqua è stato battezzato con quel nome. Più attendibile mi sembra la versione di Timeo e di Diodoro Siculo[viii], che li definiscono autoctoni.

   Comunque, un po’ tutti gli storici antichi concordano sul fatto che essi in un primo momento fossero principalmente stanziati nella Sicilia orientale da cui si sarebbero allontanati per paura del fuoco dell’Etna, che aveva distrutto i loro campi coltivati, e perché spinti ad occidente dai Siculi. Si stabilirono così nel centro dell’Isola e, quindi, il Platani segnerebbe il centro della Sicania vera e propria e, se la toponomastica ha un senso, ricordo che i nostri monti sono detti Sicani.

 

  I Sicani abitavano in villaggi costruiti su alture per evitare i pirati e forse anche la malaria, che infestava il fiume in molte sue parti. Pur costituendo una nazione, non erano soggetti ad un unico re, ma ogni città aveva il suo signore. E’ ovvio che nel corso dei secoli si fusero con i Siculi e, in seguito, con i Greci, con i quali avevano presto iniziato a commerciare. Va ricordato, per inciso, che l’emigrazione ellenica era essenzialmente maschile e che i Greci, giunti da soli sulle nostre sponde, si arrangiarono con le donne locali, istaurando legami di sangue con gli abitanti del posto. Da questa fusione nacquero i Sicelioti.

La società sicana era retta a matriarcato; va da sé che la loro maggiore divinità fosse una dea: De-metèr (Demetra, Dea Madre, Terra Madre)[ix].    Presso questa antica popolazione la donna, che rappresentava la vita, la fertilità, godeva di una posizione di privilegio; ne sono testimonianza le numerose statuette fittili o in pietra che le rappresentano.    Quando in una tribù il numero delle donne superava quello degli uomini, il capo le lasciava andare alla ricerca di un marito. Esse venivano chiamate fanciulle vaganti. Erano molto evoluti nei costumi e, prima del matrimonio, praticavano il libero amore. Dopo le nozze s’imponeva la fedeltà e le donne erano molto gelose. Non gli uomini: ne è testimonianza la vicenda di Minosse e delle figlie di Cocalo. Questo popolo di agricoltori e pastori, gran divoratore di lumache, abitava all’inizio in caverne, naturali o allargate, poi con la stessa pietra tufacea cominciò a costruire templi e città. Pare che da pietra, o selce (sike), origini il loro nome. Dalla sike essi ricavavano asce, punte di frecce e di giavellotto. Gli archi, le frecce e le lance erano derivati dai rami d’un albero simi
le alla betulla, particolarmente trattati, e da canne d’India. Combattevano nudi, armati di fionda, cavalcavano a pelo e non spogliavano i nemici uccisi, com’era consuetudine d’altri popoli antichi. Dai Cretesi appresero a seppellire i loro morti.    Accennavo a Cocalo (cfr. nota alle pgg. precedenti) e alla guerra mossagli da Minosse.

  Quando Minosse sia sbarcato in Sicilia non è facile stabilire, come non è facile indicare di quale Minosse si tratti. Se il personaggio in questione è Minosse II , la guerra dei cinque anni va collocata al tempo della guerra di Troia, diversamente va ancora più in là nel tempo, attorno al 2300/2400 a. C.. Minosse, d’altra parte, era anche il nome col quale i Cretesi chiamavano i loro re.

   In ogni caso, tutta la vicenda, storia o leggenda che sia, sta ad indicare che i rapporti commerciali tra indigeni e Cretesi erano diffusi e presto cominciati, che scambi tra civiltà diverse erano più frequenti di quanto si pensi e che il mare o i fiumi, come nel nostro caso il Platani, piuttosto che dividere o isolare, univano.

   Oggi il Platani, nei primi chilometri dalla foce è tornato attraversabile con pesanti gommoni e la sua foce, dal 1984, è divenuta una riserva naturale orientata, gestita dall’Azienda delle Foreste Demaniali della Regione Siciliana e situata tra i comuni di Cattolica Eraclea e Ribera e dove s’è ricostituita la macchia mediterranea, habitat indispensabile per numerose specie animali e vegetali.

 

 

   E veniamo ai suoi aspetti letterari, al grande poeta che lo ha cantato: Alessio Di Giovanni.

    Ognuno di noi  è espressione del suo tempo e del suo spazio e porta indelebili i segni dell’appartenenza ai luoghi, ai modi di sentire della gente presso cui è nato o s’è formato e finisce sempre col rievocarli, addirittura  a mitizzarli, se costretto a separarsene.

   Il Di Giovanni non fa eccezione e trascorse un’infanzia e una giovinezza serene in quei luoghi, nei nostri luoghi, che divennero ben presto tropoi della sua attività di narratore e poeta. Li conosceva bene perché percorsi in lungo e in largo assieme a contadini dei quali apprezzava la parlata vernacolare, schietta e musicale, e da cui sentiva raccontare le storie che poi avrebbe ripreso nelle sue composizioni. Erano quelle stesse storie, quegli stessi racconti e miti, cui s’è già accennato, quelle notizie confuse tra storia e leggenda che suo padre, Gaetano, trascriveva e che lo incuriosirono bambino. Tutti argomenti che rendono uniforme  la cultura dei borghi che insistono nella medesima vallata, che il Di Giovanni battezzò “Vaplatani” per indicare quell’immensa distesa di latifondi che si estende dalle montagne cilestrine di Bivona fino all’azzurro mare di Sciacca[x].    In quei luoghi, in quei posti è l’origine della sua poetica.  Scrive in “Come andò che divenni drammaturgo”: “…le prime cose che attirarono la mia attenzione, quando giunsi all’età del discernimento, furono, invece, quella veduta, recondita e pensosa, di monti, di valli, di pianure meste e solinghe” e, continuando: “La mia arte…deve la sua impronta prevalentemente drammatica a quella profonda traccia che il mezzo, in cui si sono passati gli anni della fanciullezza, lascia nel nostro animo, segnandolo d’un particolare sigillo che gli fa vedere la natura e la vita in un modo piuttosto che in altro”. “Se io…non fossi nato in quel cantuccio della mia selvaggia Vaplatani e in quel dato tempo, e in quelle condizioni, la mia arte avrebbe avuto certo una fisionomia diversa…”[xi].

       Dice espressamente altrove che proprio un distico d’una canzone    villereccia, sentita da un contadino ,”lu sonnu di la notti m’arrubbasti / ti lu purtasti a dormiri cu tia”, fu alla base della sua vocazione e, rispondendo a Saro Platanìa, sostiene che il suo canto contento proveniva dalla Difisa, che è una delle contrade di Cianciana, che egli cantò e descrisse superbamente, pur senza mai nominarla, nei suoi versi e nelle sue prose. Un luogo lo ha incuriosito o affascinato in modo particolare, forse per la sua peculiarità: il    fiume Platani, l’ Halykos.   La Vaplatani è al centro della Sicania vera e propria e i monti che le fanno corona son detti, ancor oggi, Monti Sicani. Come non poteva incuriosirlo quel fiume, salato, con i suoi meandri, le acque allora pescose, il suo corso costellato di miniere di zolfo e salgemma e cui era legato il ricordo di quell’antica civiltà con le sue città, che arrovellavano il cervello di Gaetano: Eraclea Minoa, Platanella, Kalat-Iblâtanu, Alesa Comite, Ferla, Ciancianìa e, soprattutto, Kamicos con Cocalo e Dedalo?!

   Il Platani, con le sue pistacchiere, è il luogo della memoria che più dei feudi (Màvaru, Millàga, Bissàna, Majenza),solitari e dalle terre gerbi, affascina il Di Giovanni, sin dai suoi primi scritti.

Comincia a parlarne diffusamente già nel 1902 nel poema di 63 sonetti, intitolato A lu passu di Giurgenti[xii], in cui domina la figura di frate Matteo, che, giunto a lu passu di Giurgenti, vorrebbe attraversare il fiume in piena. Tutti glielo sconsigliano, i viandanti e i marangoni, che il monaco prende ad intrattenere narrando vita e miracoli di fra‘ Andrea da Burgio. Assieme alla piena monta il nervosismo e gli uomini cominciano a bestemmiare Dio, i Santi, la Madonna.

   Esasperato, sdegnato, fra‘ Matteo esce e, per dimostrare a quei bestemmiatori la potenza di Dio, attraversa il fiume che lo inghiotte inesorabilmente. Il suo fanatismo lo perde.

       Non sarebbe stato più agevole e razionale aspettare che si placasse la furia del fiume o attraversarlo su un ponte?

   Diciamo che ben pochi ponti congiungevano le sponde del fiume (ancor oggi, per la verità) e che il Di Giovanni, nell’occasione, si rivela fonte storica preziosa.

   In quel punto del fiume, cioè a lu passu di Giurgenti, stazionavano i marangoni (in dialetto, maraguna), gli infelici che trasferivano sulle loro spalle i viandanti, appoggiandosi a li furceddi (forcelle), invocando S. Cristoforo e incoraggiandosi vicendevolmente.              

          Dal Mavaru, una delle contrade che si specchiano nelle acque “rummulusi e scujeti” (brontolone e inquiete)[xiii] dell’antico Halykos, prende avvio la vicenda di padre Mansueto, il cappuccino-pittore protagonista del romanzo intitolato L’uva di Sant’Antonio (Palermo,1939), che vede nella pittura un mezzo per glorificare il Signore, che ha voluto fargli dono di questa splendida arte.

   Il Mavaru è solcato dal torrente Ciniè le cui acque confluiscono nel Platani.

                                                                        

  Il Di Giovanni ritorna sul corso d’acqua nel romanzo in lingua siciliana Lu Saracinu[xiv], pensato per decenni e pubblicato postumo nel 1980 con una puntuale e profonda introduzione del prof. Pietro Mazzamuto. Esso narra la vicenda di uno scansafatiche che per non soffrire i morsi della fame decide di farsi frate del locale convento e ne diviene il cuoco. Dopo aver trascorso fuori gli anni delle prime rivoluzioni a carattere nazionale e i primi dell’unità, ritorna in paese e lo ritrova notevolmente cambiato. Alla Sicilia erano state estese le leggi Siccardi ed il Convento era stato avocato dallo stato, che lo utilizzava come scuola o caserma, cosa che è durata fino a non molti decenni fa. Fra‘ Antuninu, assieme a due complici, escogita di lucrare sui morti essendo nel frattempo divenuto responsabile del cimitero. Invita i suoi concittadini a vestire i loro morti con gli abiti più belli, che egli, poi, nel chiuso del convento spogliava e rivendeva in un paese vicino, complice il locale beccamorto che faceva la stessa cosa con i morti del suo paese.

   E’ detto lu saracinu per la sua condotta c
inica e peccaminosa e perché, appunto, non aveva rispetto nemmeno per i morti.

   Il primo della lista era stato addirittura il suo unico fratello. Fra‘ Antuninu è personaggio realmente esistito ma nell’opera alcune vicende vengono trasfigurate.

    Nel romanzo il poeta ritorna ai marangoni e alla piena del fiume, che avìa la facci di lu tradituri e facìa lu rucculu di lu lupu vecchiu (aveva l’aspetto del traditore e faceva il mugolo del lupo vecchio. – trad. del curatore). La malaria, ca pisava e fumuliava ‘ntunnu ‘ntunnu,  rendeva inospitali le terre adiacenti mentre lu pulizzanu, vuciannu e stripitannu a ddi timpi timpi, facia ‘ntanari macari li lupi di lu Salaciu e strascinava vasci vasci li nuvulazzi uniti e a culuri di la cinniri…mentri l’acqua…fujeva, scruscennu e timpistiannu, ‘mmezzu  li cuti, ntra  la negghia accussì  fitta ca nun  si vidia autru, unni si taliava taliava (che pesava e fumigava tutt’intorno…il polizzano, vociando e strepitando in quelle balze, faceva nascondere pur anche i lupi del Salacio e trasportava basse basse le nuvolacce unite e a color di cenere… mentre l’acqua…fuggiva, scrosciando impetuosamente, tra i ciottoli , nella nebbia così fitta che non si vedeva altro, ovunque si guardasse. – Trad. del redattore). [xv]

    Ancora oggi il Platani offre il medesimo spettacolo. Le sue sponde non sono più infestate dalla malaria, ma  continua ad inghiottire vite umane e animali (Cc’era la gran china, ed iddu vulìa passari pi forza cu la scecca carricata di virdura…E finìu ca cci appizzaru lu coriu, iddu e l’armaluzza puru…-

 C’era una gran piena, ed egli voleva attraversare ad ogni costo con l’asina carica di verdura…E successe che ci lasciarono la pelle, lui e pure il povero animale.- trad. del cur.-[xvi]), qualche ponte, la nebbia nelle mattinate d’inverno lo copre totalmente e la temperatura è molto bassa: uno spettacolo insolito per una cittadina dal clima mite, con inverni molto tiepidi.

 

  

 

***

                                                                

  

   Il Platani è fiume caro anche ad un altro grande, immenso poeta siciliano: Salvatore Quasimodo[xvii], premio Nobel per la letteratura nel 1959, che nella valle dell’Halykos, seguendo il padre ferroviere, trascorse un periodo della sua infanzia presso la stazione di Acquaviva Platani.

Quel posto, come tutta la Sicilia, patria solare scambiata per le nebbie della Lombardia, ma i cui bugni di zolfo dondolano sul suo capo, rivive in lui costantemente. La Sicilia, terra mitica, è il porto sicuro, il luogo in cui si stemperano, al ricordo, le sue ansie di esule. Del poeta modicano riportiamo i versi iniziali de I ritorni e il componimento Che vuoi, pastore d’aria?.

 

 

 

              Da I ritorni:

   Piazza Navona, a notte, sui sedili

   Stavo supino in cerca della quiete,

   E gli occhi con rette e volute di spirali

   Univano le stelle,

   Le stesse che seguivo da bambino

   Disteso sui ciottoli del Platani

   Sillabando al buio le preghiere.

   …

 

            Che vuoi, pastore d’aria?

   Ed è ancora il richiamo dell’antico

   Corno dei pastori, aspro sui fossati

   Bianchi di scorze di serpenti. Forse

   Dà fiato dai pianori d’Acquaviva,

   Dove il Platani rotola conchiglie

   Sotto l’acqua fra i piedi dei fanciulli

   Di pelle uliva. O da che terra il soffio

   Di vento prigioniero, rompe e fa eco

   Nella luce che già crolla; che vuoi,

   Pastore d’aria? Forse chiami i morti.

   Tu con me non odi, confusa al mare

   Dal riverbero, attenta al grido basso

   Dei pescatori che alzano le reti.

 

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    Per dovere di cronaca non possiamo sottacere il romanziere Antonio Pizzuto[xviii], che ai mulini  di Castronovo, messi in movimento  dalle acque del “modesto” e “sassoso” Platani, con le sue gore, le sue anguillaie provvide, accenna in Frumentaria[xix] (“Bassa piana il modesto fiume ivi, confronti, vestigie di trogloditi, assidui mulini sulle cui minacciose gore agave glauca e canne, informe la chiesa fortilizio avutasi da trecenteschi baroni a tenervi primo parlamento in strategica sicurezza”), in Si riparano bambole[xx] (“… il molino detto Contessa, la cui gora atterriva mamma, e l’acqua finiva a rigagnolo nel Platani sassoso”) e in Ravenna.

 

***

 

   Sempre nelle vallate che si specchiano nel bacino del Platani, trascorse parte della sua infanzia l’altro scrittore siciliano Elio Vittorini[xxi], anch’egli figlio di padre ferroviere , perciò costretto a spostarsi da una stazione, da una casa cantoniera all’altra.

   Egli non parla  specificatamente del fiume, ma di quei luoghi, di quei paesi, come Mussomeli, San Cataldo, Serradifalco, Racalmuto, Casteltermini, Acquaviva, ricorda nitidamente (Conversazione in Sicilia, pag. 605 e sgg) “la campagna color zolfo…il gran ronzio dell’estate e lo sgorgare del silenzio” e, d’inverno, “la grande solitudine della campagna tonda, senz’alberi, senza foglie e la terra che odorava, invernale, come un popone…”; i filari di fichidindia e il maiale, che poi si ammazzava, e le lontane zolfare di Bivona.[xxii] . E’ un ricordare con nostalgia sorvegliata, toni distesi e delicati, che depongono d’un’età felice anche se non priva di privazioni e disagi.

   Infine, accenna spesso al Gallo d’Oro, testimone delle sofferenze di contadini e zolfatari, in un discorso ancora tutto da esplorare, lo scrittore nisseno Angelo Petyx (Montedoro, 1912  – Cuneo, 1997)

 

***

                                                                                          

 E dunque: negli scorsi decenni l’uomo ha deturpato questa splendida opera d’arte divina che è il fiume Platani, inquinandolo, cementificando, sconvolgendone il letto, stravolgendone il paesaggio con effetti ancora ben visibili. Da qualche anno ha preso corpo una nuova sensibilità: la sua foce è divenuta un’area orientata protetta, le anguille hanno rifatto capolino, l’industria che più di tutte lo intorpidiva ha cessato di inquinare, e ci stiamo battendo perché possa essere istituito un parco fluviale che lo restituisca, con le sue anse, le sue gole, i suoi colori, la sua vegetazione e la sua fauna, agli antichi splendori, ai quadri di padre Mansueto, alla poesia del Di Giovanni, alla limpidezza del Quasimodo. E per lasciare un ambiente pulito, fruibile, a quanti ci seguiranno e vorranno ispirasi alla natura per dipingere, come hanno fatto i pittori che con le loro opere impreziosiscono le chiese che adornano le nostre  cittadine, e per condurre un’esistenza in simbiosi con la natura,  a misura d’uomo.*

 * Eugenio Giannone in: AA.VV., Halikos, aspetti naturalistici e culturali del fiume Platani, (a cura di Monica ed Eugenio Giannone), Provincia Regionale di Agrigento, Agrigento 2006 

 

      

   Ma il fascino della valle del Platani non si limita ai suoi antichi abitanti, ai suoi miti, alle sue leggende o ai suoi scrittori e poeti. La sua favolosa Vallata è uno scrigno nel quale la Natura ha concentrato suoi tesori, vera delizia degli occhi e dello spirito.

   Nonostante le offese umane, il contesto naturalistico è qualcosa di unico. Per la Fauna basterà ricordare che vi sono state censite circa 200
specie di uccelli, alcuni di passo, altri stanziali e nidificanti. Solo qualche nome: l’Aquila del Bonelli, il Canovaccio, la Ghiandaia, il Kite, il Falco pellegrino, la Cicogna, l’Airone (bianco, cinerino, rosso), il Fenicottero, il Cavaliere d’Italia,la Poiana, il Nibbio, la Civetta, la Gru cinerina, la Gazza. Tra i rettili: il Ramarro, il Biacco, la Vipera, la Tartaruga di palustre; e poi: la Martora, la Donnola, il Riccio, l’Istrice. Nel suo letto si annidano ancora le saporire anguille.

   La sua foce dal 1984 è una “Riserva Naturale Orientata”, gestita dall’Azienda delle Foreste Demaniali della Regione Sicilia.

   Assai variegata la Flora, che vede tra i suoi “monumenti” il Salice, la Tamerice, l’Oleandro, la Roverella, il Cipresso, la Ginestra,l’Olmo, il Pioppo; e tra le erbe e fiori: il Ciclamino, la Rosa peonia, gli Anemoni, il Giaggiolo, l’Iris, il Rosmarino, il Mirto, il Giglio marino, la Santolina, l’Asparago selvatico etc.

   Ricchissimo il patrimonio fokloristico (Venerdì Santo e Sagra del raccolto a Cianciana, Gli Archi di Pasqua a S. Biagio Platani, Festa del Tataratà a Casteltermini, Sagra della pesca a Bivona, Sagra del Formaggio a Santo Stefano Quisquina etc); interessantissime le emergenze archeologiche: tombe a tholos e grotte a S. Angelo Muxaro, le Necropoli, la maccaluba Abissu e la Grotta del Cavallo a Cianciana, la Grotta dell’Acqua Fitusa a Cammarata, le rovine di Kassar a Castronovo di Sicilia, il Castello chiaramontano a Mussomeli; e ancora: il parco archeologico di Eraclea Minoa, l’Eremo della Quisquina a Santo Stefano Quisquina, l’Eremo di Santa Croce con una Croce paleocristiana a Casteltermini, le chiese di Bivona ricche di pregevoli quadri, le numerose aree boschive attrezzate per picnic, non dimenticando che a poco più di mezz’ora d’automobile sono raggiungibili Agrigento con la sua Valle dei Templi (patrimonio dell’umanità) e il Museo archeologico, Sciacca con le sue ceramiche e le acque termali, Selinunte ecc.

   Se Vi capita di visitare le graziose cittadine della Vallata del Platani, non dimenticate di assaggiare i cibi e i prodotti locali, genuini: i formaggi, la ricotta, le verdure, i salumi, le arance  di Ribera, le pesche di Bivona, le saporire carni degli animali allevati in loco, gli ortaggi, i dolci (cannoli, bigné etc.) e i vini. (e.g.)

 

[i] Minosse, re di Creta, fece costruire da Dedalo il labirinto nel quale rinchiuse il Minotauro, al quale ogni anno venivano offerti sette fanciulli e sette fanciulle. Secondo la leggenda, Dedalo aiutò Teseo, che aveva ucciso il mostro, e Arianna a fuggire, inimicandosi il re che lo punì imprigionandolo assieme al figlio Icaro nel labirinto stesso. Dedalo riuscì ad evadere da Creta costruendo per sé e per il figlio delle ali di cera e trovò rifugio ad Inico, presso Cocalo, re dei Sicani. Durante il volo era morto, precipitando in mare, Icaro, che, ignaro del consiglio del padre, aveva volato troppo vicino al sole. Per Cocalo Dedalo costruì la nuova capitale, Kamicos, ed altre opere architettoniche. Minosse giunse in Sicilia con una flotta e reclamò la consegna di Dedalo. Poiché il re sicano si era rifiutato di consegnarlo per non tradire l’ospitalità, sempre sacra tra i popoli mediterranei, scoppiò la cosiddetta guerra dei cinque anni, durante la quale Minosse trovò la morte, affogato dalle cocalidi in una vasca d’acqua bollente. Secondo un’altra versione, il re cretese morì non appena approdato in Sicilia, presso Eraclea(Macara), che venne soprannominata Minoa. I suoi seguaci consegnarono il corpo a Cocalo perché gli desse degna sepoltura e si fusero con gli abitanti della Sicania. A Sant’Angelo Muxaro esiste una tomba a tholos, detta Grotta del Principe. (eg)

 

[ii] Il sale, per le sue proprietà, è ed era un elemento preziosissimo. Anticamente le conserve avvenivano  sotto sale.

[iii] I comuni che si affacciano sulla valle del Platani e che ci interessano in questo studio sono quelli dell’asta principale, per cui cfr il saggio di D. Mortellaro.

[iv] Vito Amico, Dizionario topografico della Sicilia, Palermo, 1855

 

[v]  Ricorda Vito Lo Scrudato (in  AA. VV.,“Mille balconi ad oriente”, Comune di Cammarata, 2004, pag. 14): “L’erba… ‘u rizzitieddu, veniva usata per catturare le anguille del fiume. Adesso nel fiume non ci sono più le anguille, ma neppure più l’acqua. E di acqua invece una volta ce n’era tanta da portarsi fino a mare uomini e bestie. Tutti a Cammarata hanno memoria del pericolo del fiume, i ponti non erano frequenti così bisognava evitare la piena per passare dall’altra parte: verso Tumarrano, Sparacia, ficuzza, Bocca di Capra”.

[vi] Alessio Di Giovanni (Cianciana, 1872 – Palermo, 1946), poeta, romanziere, drammaturgo e saggista, è oggi unanimemente considerato dalla critica militante uno dei più grandi poeti dialettali del ‘900.

   La sua produzione, pervasa da un forte senso cristiano e francescano dell’esistenza, è un grande    affresco della vita del latifondo e della zolfara, cantata con accenti commossi e di viva e intensa partecipazione emotiva.

    Luigi Russo, uno dei più grossi critici del ‘900, lo definì “il più grande cantore degli umili   d’Italia dopo il Manzoni”, mentre Federico Mistral, poeta provenzale premio Nobel per la letteratura nel 1904, apprese il siciliano per leggerlo in versione originale. L’opera del Di Giovanni fu particolarmente apprezzata dal Verga (che nel 1910, a proposito del dramma “Gabrieli, lu carusu”, gli scriveva: …Questa è arte schietta, viva e sincera riproduzione della vita…), da P. P. Pasolini  e L. Sciascia.

   Il dramma “Scunciuru”,che agli inizi del XX secolo, gli diede notorietà universale, venne rappresentato nei maggiori teatri del mondo (al Broadway di New York, a Baltimora, Philadelphia, L’Avana etc), suscitando una vasta eco sui maggiori quotidiani delle due Americhe e italiani. Ineguagliabili le sue pagine sul francescanesimo ; altamente drammatici nella loro essenzialità i sonetti che ritraggono la vita di stenti dei minatori.

   Di Alessio Di Giovanni si sono occupati personaggi del calibro di L. Russo, G. Verga, P.P. Pasolini, L. Sciascia, già citati, e I. Buttitta, S. Di Marco, L. Zinna, , E. Papa, P. Mazzamuto, R. Verdirame, M. Sìpala, M. Bonelli, G. Cepparelli, N. Mazzocchi Alemanni, F. Brevini, E. Granelli, P. Hale, C. Kostia, M. Jouveau, G. Lipparini, E. Santoni, J. Ronjat, P. Reynier ed altri.

   Tra le opere: Voci del feudo, Palermo, 1938; Teatro siciliano: Scunciuru, Gabrieli lu carusu, Mora! Mora!, Catania, 1932; Lu saracinu (postumo), Palermo, 1980; L’uva di Sant’Antonio, Catania, 1939; Cristu, ode siciliana, Palermo, 1905; Lu puvireddu amurusu, Palermo, 1907; Saru Platania e la poesia dialettale in Sicilia, Napoli, 1894.

 

[vii]Tucidide, uno dei maggiori storici greci, vissuto nel V secolo a. C., scrisse le Storie o Guerra del Peloponneso, dove accenna ad eventi della Sicilia.  Dionisio d’Alicarnasso, retore e storico del I secolo a. C., fu autore, tra l’altro, di una storia di Roma antica (Antiquitates Romanae).

[viii] Timeo, storico siceliota di Taormina, III-IV sec. A. C., scrisse una Storia in cui tracciava la storia siciliana dalle origini ad Agatocle. Diodoro Siculo, storico di Agira, vissuto nel I secolo a. C., è autore di una Biblioteca Historica, fonte preziosa per la storia della Sicilia antica.

[ix] Il più affascinante mito agrario della classicità è quello di Demetra e Core, che gli antichi Greci hanno pateticamente tentato di far proprio ma che è di chiara origine siciliana. Ha un significato allegorico e simboleggia l’alternarsi delle stagioni, l’avvicendarsi del dì e della notte, della luce e delle tenebre, la perenne lotta tra bene e male, il trionfo della vita sulla morte. La dea Demetra e la figlia Core abitavano al centro della Sicilia, i
n un luogo d’eterna primavera e profumatissimo. Core vi trascorreva amenamente il tempo assieme a Diana ed Atena (che avrebbe in seguito regalato agli uomini l’ulivo, simbolo della pace). Della giovane dea s’invaghisce Ade (Aidone o Plutone), che la rapisce conducendola nei Campi Elisi a regnare sui morti. Demetra, disperata, cerca ovunque ma invano la figlia, beneficando i siciliani che l’avevano ospitata col dono del grano; si rivolge infine a Giove, che ottiene dal fratello Ade che la fanciulla trascorra parte dell’anno sottoterra, accanto al marito che ha appreso ad amare, e parte sulla terra che al suo ritorno, in primavera, rifiorisce. Quale albero più del mandorlo raffigura il risveglio della Natura?    Quindi: Demetra rappresenta la terra-madre (De-meter); Core, con nomi diversi, il grano verde, maturo o raccolto e, per il continuo rinascere dei fiori, la vita che trionfa sulla morte. Il frutto del grano, infatti, è alla base dell’alimentazione (=vita) di tutti i popoli mediterranei.

   Credo sia dedicata, almeno nelle origini, a queste divinità ctonie la sagra che si svolge a Cianciana nella notte tra il 31 luglio e il 1° agosto di ogni anno, allorché  in ogni strada vengono messi a cuocere in capienti calderoni fave, ceci, frumento etc, offerti con generoso vino al vicinato e ai curiosi.

[x] A. Di Giovanni, Voci del feudo, Palermo, Sandron, 1938; ristampa del 1997, a cura di S. Di Marco, per i tipi della Ila Palma per conto del Comune di Cianciana, pag.135.

 

[xi] A. Di Giovanni, Teatro siciliano, Studio Editoriale Moderno, Catania, 1932, pgg.VIII-IX.

[xii] A. Di Giovanni, A lu passu di Giurgenti, Giannotta, Catania, 1902.

[xiii] A. Di Giovanni, L’uva di Sant’Antonio, Studio Edit. Moderno, Catania, 1939, pag. 66.

 

[xiv] A. Di Giovanni, Lu saracinu, Il Vespro, Palermo,1980.

[xv] A. Di Giovanni, Lu saracinu, cit., pgg. 68-69.

[xvi] A. Di Giovanni, Lu saracinu, cit., pag. 134

[xvii]Alla chiarezza classica del linguaggio Salvatore Quasimodo (Modica,1901 – Napoli, 1968) unì una profonda aderenza alla realtà, una maggiore concretezza, un discorso poetico più aperto, senza che venisse meno quel linguaggio musicale ed evocativo, tipico degli ermetici. L’esperienza della guerra, la lotta civile, l’occupazione straniera non lasciano insensibile il Poeta che da essi trae una fonte d’ispirazione più vasta e complessa, una partecipazione più viva al dolore umano. Il distacco dalla meditazione solitaria, la volontà di ritrovare un colloquio più aperto con gli uomini e di sentirsi partecipe della vicenda umana distinguono Quasimodo dagli altri grandi protagonisti dell’Ermetismo.    Scriveva nel ’47 : Il poeta non rinnega mai la vita. Vita…in ogni sua inesorabile manifestazione: gioia…dolori…delitto, psicosi, miseria. Questa fedeltà alla vita la troviamo in ogni lirica di Q., la cui esperienza vissuta si identifica nell’amara esperienza dell’uomo contemporaneo, che ha maturato le sue istanze la prima e ala seconda guerra mondiale, ha vissuto il dramma del secondo conflitto e ha tentato di riprendere il cammino nel clima incerto e confuso del dopoguerra, in una continua alternanza di speranza e di delusione.

   Vita dura ed errabonda, che lo mise a contatto diretto con la sofferenza e ala miseria della gente meridionale.

   Acque e terre (1930): al centro dell’ispirazione è la Sicilia patria ariosa, aperta; luogo preciso a cui la memoria ritorna, facendo rivivere i cari amici, la casa abbandonata, la madre, i morti, i luoghi d’infanzia, il tutto rievocato con l’amarezza e il tono nostalgico dell’esule vanamente proteso alla riconquista del passato, nel momento in cui il presente e il futuro gli appaiono misteriosi e, a volte, minacciosi.    L’uomo si sente solo, abbandonato all’esilio, dove è destinato a rompere amaro pane; nessuna luce può colmare il vuoto dell’anima e tutto interno a lui si fa buio. Resta tuttavia il mito del tempo perduto, l’infanzia, della cara brigata.

   Le successive pubblicazioni, Oboe sommerso del 1932, Poesie del ’38 etc, che nel 1942 verranno fuse in un unico volume dal titolo Ed è subito sera, rappresentano uno sviluppo e un approfondimento delle conquiste di Acque e terre. Riappare il mito della Sicilia, oasi di sognata felicità; risentiamo la nostalgia dei luoghi d’infanzia, la tristezza dell’esule; ma in queste liriche si accentua la disperata consapevolezza di quanto sia remota quell’oasi e quanto difficile sia la ricostruzione del passato. Da qui la disperazione e la solitudine di ognuno sta solo…sera.

   Intanto la guerra si faceva sentire e la guerra richiama violenza…un possesso maggiore di verità. Alla ricerca di questo possesso, di un nuovo ordine deve contribuire anche la Poesia (Giorno dopo giorno del 1946, La vita non è un sogno) del 1949. Da qui l’impegno di contribuire alla ricostruzione dell’uomo frodato dalla guerra, che gli fa sentire più umana e sociale la sua vocazione di poeta; nasce una poesia che Quasimodo definisce sociale; alla Sicilia si sostituisce l’intera umanità alla ricerca di un ordine sociale nuovo, che la riscatti dalla guerra e dalla violenza. (Cfr. A. Menetti, Letteratura contemporanea, Milano, 1980)

 

[xviii]Antonio Pizzuto, originario di Castronovo, nacque a Palermo nel 1893, da una famiglia prestigiosa. Laureato in Giurisprudenza e in Filosofia, entrò in Pubblica Sicurezza dove rimase fino al 1950, congedandosi come Questore. Andato in pensione poté attuare i disegni letterari che aveva  accarezzato da sempre. Morì a Roma nel 1976. Tra le sue opere: Signorina Rosina (1956), Si riparano bambole (1960), Ravenna (1962), Paginette (1962), Sinfonia (1966) etc.

 Nella sua scrittura d’avanguardia dominano uno stile paratattico, la frase nominale, la musicalità della  parola, un certo lirismo che dissolve, decompone la realtà, la persona, l’io. Pizzuto è uno scrittore  siciliano anomalo, non perché in lui non ci sia il richiamo dell’Isola, ma perché ignora la lezione del realismo di cui è intessuta tutta la tradizione letteraria siciliana.

                       [xix] in Sinfonia, Milano il Saggiatore 1974, pag. 85

                       [xx] Si riparano bambole, Milano, Lerici, 1960, pag. 302.

 

[xxi] Elio Vittorini nacque a Siracusa nel 1908. Trascorse in Sicilia la sua prima infanzia e, dopo aver frequentato   scuole tecniche senza tuttavia conseguire il diploma, iniziò un pellegrinaggio in diverse località dell’Italia settentrionale ed esercitò numerosi mestieri. Pubblicò i suoi primi scritti sulla rivista Solaria, che raccoglieva attorno a sé gli spiriti più attivi e impegnati del momento. Il Garofano rosso, iniziato a puntate sulla rivista, venne bloccato dalla censura fascista e vide la luce solo nel 1948. Vittorini, oltre che scrittore e giornalista, fu anche valente traduttore soprattutto di scrittori americani come Hemingway, Faulkner, Saroyan, dai quali apprese “la lezione d’aderenza impetuosa e quasi selvaggia ai problemi capitali della vita”, dando inizio ad una conversazione “sulla condizione umana attraverso un ritorno della memoria nella terra dell’adolescenza”. Durante la guerra di Spagna s’era iscritto al PCI per contribuire alla lotta antifascista e nel 1945 fondò Il Politecnico, che cessò le pubblicazioni nel 1947, in seguito ad una polemica con Togliatti sul rapporto tra politica e cultura. Per l’autore siciliano gli scrittori non potevano essere i pifferi della rivoluzione; d’altra parte Vittorini non era mai stato marxista. Tutte le sue opere, animate da un forte impegno sociale e dal gusto neorealista (Sardegna come infanzia del ‘52, Diario in pubblico del ’57,Conversazione in Sicilia del ’41, Uomini e no del ’45, La Garibaldina del ’56 etc) sono state raccolte in un volume pubblicato nel 1974 dalla Mondatori di Milano, città dove si spense nel 19
66. (cfr. A. Menetti, Letteratura contemporanea, Milano, 1980)

 

[xxii]  Si tratta, in realtà, delle miniere di Cianciana. A Bivona non esistevano zolfare.

 

                       

 

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