A 40 anni dalla morte del Poeta
MARIO GORI, saraceno di Sicilia
di Eugenio Giannone
Ad una prima, frettolosa lettura, quella di Mario Gori* può apparire la poesia d’un solitario e “vagabondo sconsolato”, “saraceno di Sicilia” egli amava definirsi. Ma non è così perché Gori va inserito a pieno titolo, in quanto ne fu autentico protagonista con la sua animosità culturale, in quel vasto contesto ricco di fermenti innovativi che attraversò la produzione isolana in versi negli anni immediatamente successivi alla seconda guerra mondiale e nei primi anni ’50 del secolo appena trascorso. Basti ricordare il “Gruppo Alessio Di Giovanni”, che operò a Palermo, e il gruppo dei poeti che egli riusciva a coagulare attorno alle sue riviste. Denominatore comune di questi giovani artisti era lo svecchiamento nei modi e nei contenuti della poesia siciliana per ritrovare più moderne forme espressive, riallacciando la nostra tradizione poetica al gran flusso della cultura europea senza, tuttavia, dimenticare la lezione dei classici. Siamo in piena stagione neorealistica e quasi sempre da un dato concreto muove la poesia del poeta di Niscemi, di cui quest’anno ricade il quarantennale della morte e la cui figura va accostata per chiarezza di dettato ed esiti formali ad altri due grandi poeti del ‘900 che hanno lasciato chiara impronta di sé nel nostro panorama artistico-letterario.
Mi riferisco ad Alessio Di Giovanni e ad Ignazio Buttitta. Del poeta di Cianciana e di quello di Bagheria Mario Gori condivide la sorte: più famoso in vita che post mortem, come di solito accade
Gori è il menestrello accorato di un’epoca in dissolvimento sulla quale irrompe il nuovo che avanza inesorabilmente e che promette palingenesi e conquiste impensabili ma che si rivela incapace di ovviare a mali come la guerra, la fame, le malattie, antichi quanto l’uomo che ancora una volta si ritrova solo nel cuore della terra.
La solitudine è un dei temi ricorrenti nella poesia di Gori, che così chiude il componimento intitolato “Se così era scritto”: “O mio Signore, /come te sono solo…” e, ancora: “Signore, siamo soli / in questa terra ormai così deserta”.
Accanto alla solitudine l’incanto dell’infanzia con la sua innocenza, i suoi giochi, gli innamoramenti, la sua spensieratezza, i sogni infranti per cui la sua poesia diventa una struggente nenia del tempo che fu e si fa pianto che avvolge con la sua malia per i ricordi dolce-amari che lascia affiorare e per un mondo arcano, patriarcale che non c’è più; un mondo che, in ogni caso, non è difficile ancor oggi rinvenire in alcune lande dell’entroterra siciliano.
L’infanzia è l’età dell’incanto, delle dolcissime illusioni, una favola bella perché bella è la vita nell’immaginazione. Ma i sogni “avviliscono” e le speranze vengono “umiliate”; la prosaicità della vita li spazza via.
Simile visione sconsolata della vita ha fatto apparentare Mario Gori a Foscolo, Pascoli e soprattutto a Leopardi. In lui non c’è il “minimalismo”, il farsi piccolo piccolo del Pascoli e non c’è il “mistero”, ma lo stupore, l’incanto di una fase della nostra vita. Gori, come il poeta di Recanati, non sbarra le porte al futuro perché andare sempre in cerca di qualcosa se si è scontenti del presente è, sì, segno di inquietudine e di ansia ma esprime anche la consapevolezza che altrove, chissà dove, c’è quello che cerchiamo e ci sfugge, “c’è il sole che fa gaia la primavera”, ci sono le fanciulle in fiore e il mondo con le sue luci e le sue ombre (Cartolina); e basta un filo d’erba che sussurri col vento (E’ la tua luce) perché torni a credere nella vita; Gori è consapevole che è insano inseguire illusioni (La lettera) e che il trascorrere inesorabile del tempo è nell’ordine naturale delle cose; sistematicamente, ad ogni estate succede implacabilmente l’inverno. E viceversa. Meno forzato mi appare l’accostamento ai Crepuscolari con i quali c’è consonanza di temi, primo fra tutti il male di vivere (pena di vivere, la chiama in Infanzia). Ma perché accostare la produzione d’un poeta a quella di un altro o di altri? Perché cercare sempre modelli?
Quella del Gori è la storia d’un uomo e della sua anima, della sua personalissima visione della vita, che si esprime attraverso la sua grande cultura che contempla certamente Foscolo, Leopardi, Pascoli, ma anche Petrarca e altri classici, non ultimi Quasimodo e Ungaretti al quale ci rimanda, in qualche modo, “Cincu e deci”, laddove il Poeta ricorda che i caduti in guerra, in ogni angolo del mondo, sono vivi nel nostro cuore. La sua originalità è indubbia ed egli è un grande, una delle voci più autentiche della poesia italiana del secondo Novecento. Ed è altresì indubbio che la guerra ha avuto un ruolo importante nella vita del Niscemese perché essa, davvero, spazzò via i sogni e le illusioni dell’infanzia e della giovinezza. C’è un grande desiderio di pace in queste composizioni, la speranza di vivere in armonia con gli altri e quanto ci circonda, ma l’uomo gli appare una creatura impazzita e i vivi dissennati. Il suo ci appare, per parafrasare un altro grande poeta, un contrappunto d’amore senza amore, un canto sconfinato di pietà e di speranza per il suo Sud e per l’uomo che riesce sempre a farsi male perdendo l’innocenza primigenia. Vi trova spazio l’epos dei paesi siciliani, dove sogno e realtà, fantasia e prassi convergono per convivere, alimentandosi a vicenda.
Ciò che pure colpisce nella poesia del quotidiano di Gori è la facoltà pittorica, fotografica, incline a cogliere i particolari e che fa sì che si abbia l’impressione di rivedere i luoghi e i momenti descritti, come nel caso dei giochi fanciulleschi che egli spesso rievoca in maniera magistrale e ci fa ritornare bambini, perché i poeti hanno anche la grande facoltà di trasportarci in un mondo onirico, al di là e al di sopra del tempo. Il tutto con un linguaggio affabulatore, fortemente espressivo, evocativo, che nei componimenti in vernacolo tende al recupero di termini desueti, che conferiscono un sapore antico al dettato e una struggente musicalità alla sua modulazione. Tutto in questi versi è musica, magia. Lo è l’infanzia con i suoi giochi, lo è l’amore, causa di tante sofferenze, per il quale a vent’anni ci si perde. E allora sarebbe meglio un mondo senza amore? Ma cosa sarebbe un mondo così, senza amore, senza calore? La vita sarebbe fredda e la speranza morta (A me matri). E’ meglio vivere di sogni, anche se illusori, perché quando un sogno finisce il mondo muore (Infanzia).
E veniamo all’altro grande tema della poesia goriana: l’erranza, “malattia” comune a tanti siciliani della diaspora.C’è in lui una sorta d’inquietudine selvaggia (saraceno) che gli fa sognare partenze e non gli consente tregua obbligandolo ad errare alla ricerca di qualcosa che riesca a placare la sua ansia. Un desiderio smodato di conoscere, scoprire, inebriarsi d’infinito,di qualcosa che forse non è mai esistito se non nei sogni, in una regione mitica verso la quale costantemente protende.
Un’anima ribelle, che non sa rassegnarsi, con una spina nel cuore (Lettera al padre), che lo costringe a “consumare i giorni inutilmente, a chiudere le sere in amarezza, e sognare partenze e mai partire”.
Evadere pernon sapere dove andare; sicuramente lontano dai suoi luoghi, dove, tuttavia, sempre ritorna perché non sa staccarsene. E’ una specie d’amore-odio che lo tiene in esilio, lo blocca “appena a un passo prima d’arrivare”. E’un andare continuo verso un sogno, “rifugio sicuro alla tristezza che portiamo dentro” (Il ritorno), verso il mondo mitico dell’infanzia e dell’immaginazione. Ma il Poeta sa che passata la dolce stagione dell’infanzia non è più possibile salire tra le nuvole né cantare canzoni alla luna. E seppure, ancora, questi versi ci rimandano a Leopardi, ci piace richiamare alla memoria il primo poeta esule siciliano, quell’Ibn Hâmdis, che fu vero saraceno di Sicilia.
Un accenno alla composizione che molti considerano il capolavoro di Mario Gori, al “Notturno pisano”. Non leggetela, sdraiatevi su un divano, chiudete gli occhi e fatevela recitare: assisterete ad un film!
Il Notturno è una poesia completa e “raggiunge vertici assoluti” (E. Schembari).
Mi piace chiudere questo breve intervento sul poeta niscemese con un giudizio di Fortunato Pasqualino, lo scrittore d’ispirazione cristiana recentemente scomparso, che così afferma: [quella di M. Gori] “è una poesia contrassegnata da uno spirito di umiltà e di grandezza epica, cosmica, del dolore, ma esposta al rischio di una certa ingenuità e fragilità, in un tempo come il nostro, di estreme astuzie e crudeltà stilistiche”; e auspicando la ristampa delle opere del Poeta, perché, senza testi a disposizione degli studiosi, non è facile relazionare e ogni intervento non potrà che risultare settoriale o monco.
(EG)
* Mario GORI (pseudonimo di Mario Di Pasquale, Niscemi, 1926 – Catania, 1970)
Ritratto
Io sono un saraceno di Sicilia
Da secoli scontento,
Un antico ramingo che ha pace
Solo se va.
Ma il cielo è alto,
E’ altissimo
La mano dell’uomo non arriva
a rubare una stella.
Così
Vado in cerca d’un fiore
Da appuntarmi sul cuore.
Giocattoli
La mia infanzia passò senza giocattoli,
Nessuno mi donò treni di latta
Per la festa dei morti.
Mio nonno restò povero anche in cielo
E non poté mai scendere. Nessuno
Volle in cambio del cuore
Vendergli un palloncino colorato.
Cartolina
Salutatemi il sole che fa gaia
La primavera e le fanciulle in fiore
Vestite di maglioni e di sorrisi.
Salutatemi il mondo. Io qui rinchiuso
In questa disperata solitudine
Vivo soltanto di ricordi e vita
Non è quest’ansia che mi colma e inquieta
Le notti aperte ad ogni desiderio.
Guardo solo le nuvole che vanno
A raccogliere l’ombra della sera.
Vint’anni
Vint’anni! E poi si dici c’a vint’anni
Lu cori è lu patruni di lu munnu,
Picchì teni l’amuri a so‘ cumanni
E non canusci lu duluri funnu.
Ma l’amuri, ca fa l’omu cchiù granni,
prima l’acchiana e poi lu butta a funnu;
e, ’n menzu scattacori e disinganni,
lu pigghia e lassa e lu fa sdari a tunnu.
Vint’anni! Cu‘ non sapi lu pinari
Di certi siri di malincunia,
quannu un ricordu veni attorna e mori,
quannu videmu tutti sfantumari
li sonna, e veni ’n testa ’na fuddìa,
cuvata na li chianti di lu cori?