La serenata veniva portata, alla persona amata, dallo spasimante o dal fidanzato, per quest’ultimo un dovere; una cosa seria ed impegnativa, perciò, spesso, i canti venivano,da questo, provati e riprovati insieme ai musici che lo avrebbero dovuto poi accompagnare.
” Nun si pò fari malafigura!” non si può fare brutta figura ( Di cani ululanti e asini raglianti ve ne erano già tanti…in quel tempo). Saper cantare e possedere una bella voce intonata erano doti molto apprezzate, perciò, un bel biglietto di presentazione. Le serenate fatte ” a frustustù ” alla belle e meglio, specialmente se portate da uno spasimante; da un pretendente, di solito andavano a finire a ” rinalate “; a ” corpa di cantaru” colpi di cantero, dopo averne versato il contenuto addosso ai malcapitati. C’era di peggio e bisognava stare molto attenti perchè la permalosità è frutto dell’ignoranza, quest’ultima, in quel tempo, molto ma molto diffusa….come la lupara.
Un gruppetto formato, solitamente, da non più di dieci persone, musicanti compresi,
con strumenti quali: chitarra, fisarmonica, mandolino, violino…. e l’immancabile fiasco, che non è uno strumento musicale ma un contenitore di terra cotta, che si portavano appresso colmo di vino, indispensabile, quest’ultimo, per infondere brio e coraggio. Intorno alla mezzanotte, il gruppetto prendeva posto difronte alla casa della ” zita “, fidanzata ed “attaccava” con la serenata. Già alle prime note, le finestre delle case vicine si aprivano man mano
” a baniddruzza ” tanto quanto bastava per vedere ” cu sunnu ” chi “sono”; chi erano e per sentire quel canto d’amore e quella musica che l’accompagnava. La serenata, comunque, a prescindere da chi la portasse e a chi fosse diretta, era molto apprezzata, benvenuta e ben sentita, almeno dai vicini di casa di colei alla quale era portata. Tante finestre si aprivano… tranne quelle della casa della ” zita ” la quale, certamente, avrebbe voluto spalancarle per affacciarsi; ma ciò non era possibile senza il consenso del padre o di chi ne poteva fare le veci. Era, comunque, facile che, il futuro suocero, oltre alle finestre aprisse anche la porta e, seguito dalla propria figliola, scendesse giù per strada, recando vino, biscotti e rosolio da offrire al suo futuro genero e a tutto il gruppo.
Quando invece a portare la sereneta era uno “sconosciuto” spasimante, allora, come già accennato: tutti pronti….a scappare. Era una grande fortuna, in questi casi, concludere la serenata ed andare via senza prendere nè “acqua ” nè ” fuoco “.
” Vinni a cantari cca sta sirinata”, canto di amore di origine ciancianese, di autore anonimo, non manca mai nelle serenate.
Vinni a cantari cca sta sirinata
cu’ la chitarra e la me’ cumpagnia
ricordati di me fanciulla mia
lo sai che sono io il tuo primo amore
lo sai che sono io che t’amo tanto
e vengo a risvegliarti col mio canto.
Tu dormi dormi fanciulla mia
non sai che sia l’amare a te
tengo ‘na smania di averti accanto
di amor soltanto mi fai morì.
E a la matina di la bellivata
ti portu lu cafè cu’ la granita
e po’ ti portu a la missa cantata
cu’ la to’ beddra vistina di sita.
Tu dormi dormi fanciulla mia
non sai che sia l’amare a te
tengo ‘na smania di averti accanto……
Un altro famoso canto d’amore, sempre di origine ciancianese è “Adelina”
Vi erano, oltre ai canti d’amore, anche quelli di sdegno: testi per canzoni composti da quei spasimanti, o da chi per loro, che, per un motivo o per l’altro erano stati respinti dalla persona amata. Quei sentimenti di amore, diventavano, così, di odio, di astio, di rancore, di profondo disprezzo: ” Eratu meli e ti facisti feli ” eri miele e ti sei fatta fiele. Anche questi venivano portati e cantati, così come le serenate; i canti d’amore…Occorreva, però, tanto coraggio, perchè il rischio era molto alto.
– ” Cu ‘na bagascia cci vaiju cuntenti
e pi tri notti cci fazzu l’amuri
pi’ fari u’ smaccu a tia; razza fitenti
ca di li troi si’ lu sciuri sciuri ” –
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– ” A cu’ si piglia a tia facci di signa
‘un sapi comu è fatta la vrigogna ” –
Questo e altro si scriveva e si cantava perchè ” Tantu t’amavu e ancora cchiù ti disprezzu” tanto ti ho amato e ancor di più ti disprezzo.
Agostino D’Ascoli