Con la versione cinematografica del suo ultimo romanzo Non ti muovere (Mondadori, 2001), che aveva già venduto un milione di copie, Margaret Mazzantini è definitivamente diventata la scrittrice italiana del momento. Se poi si pensa che con Il catino di zinco (Marsilio, 1994), il suo primo romanzo, aveva già vinto anche il Premio Selezione Campiello e con Non ti muovere addirittura cinque premi, tra cui figura il prestigiosissimo Premio Strega, allora è chiaro che al cinema la Mazzantini deve solamente l’ultima spinta alla sua fama che l’ha resa nota anche a chi normalmente non legge né si occupa di letteratura.
Margaret Mazzantini è italiana, ma è nata Dublino, figlia d’arte di madre irlandese e pittrice, Anna Donnelly, e di padre italiano e scrittore, Carlo Mazzantini. Ha trascorso la sua infanzia a Tivoli in campagna a due passi da Roma, dove poi ha studiato presso l’Accademia Nazionale d’Arte Drammatica. Le sue prime esperienze artistiche sono teatrali come interprete di personaggi femminili dal grande spessore e dal destino tragico. Come attrice ha debuttato nel 1982 con Ifigenia di Goethe. Tra le sue interpretazioni troviamo, tra le altre, Le tre sorelle di Čechov (1984-85), La signora Giulia di Strindberg (1985-86), Antigone di Sofocle (1986), L’alcalde di Zalamea di Calderón de la Barca (1984-85) oltre anche a non pochi ruoli in film per il grande schermo.4 Il mondo al femminile è decisamente presente anche in tutti i suoi romanzi e la donna, sia essa protagonista o deuteragonista, è proposta da diversi punti di vista per essere poi osservata, descritta, ammirata, messa in discussione e confrontata con il mondo circostante.
Con questo saggio si vuole invitare ad una riflessione complessiva sui romanzi fin qui pubblicati da questa scrittrice. Romanzi che vanno letti (ma forse dovrei dire meglio “ri-letti”) come un vero e proprio esempio di percorso a sviluppo di un unico tema: la donna e, quindi, come unmodello esemplare di écriture féminine. Il personaggio femminile proposto dalla Mazzantini è, infatti, da leggere sempre come una provocazione che invita ad un’ineluttabile riflessione sulla posizione della donna nella nostra società di ieri e di oggi (e, inevitabilmente, anche sul suo futuro). Le donne dei romanzi della Mazzantini sono raccontate da diversi punti di vista e tratteggiate con diverse sfaccettature e rappresentano un personaggio che, oggi, arrivato ad un crocevia epocale, è presentato come doppio, diviso come un’erma bifronte con un volto che guarda al passato e uno al futuro. Questa divisione è vissuta in mezzo a mille conflitti che opprimono e dilaniano la donna che si pone di fronte al dilemma della scelta della nuova strada da percorrere nel nuovo secolo.
Il catino di zinco è il romanzo d’esordio dell’allora trentatreenne scrittrice. Vale la pena di cominciare con quest’opera prima, segnalando un’interessantissima coincidenza, per certi versi “storica”, legata alla sua pubblicazione. Il romanzo fu pubblicato, infatti, lo stesso anno di Va’ dove ti porta il cuore di Susanna Tamaro, una delle poche altre scrittrici italiane che ha superato il tetto del milione di copie vendute proprio con quel libro. Questi due libri hanno come protagoniste due nonne e presentano in sostanza, anche se in modo diverso, lo stesso tema dei rapporti generazionali tra donne negli ultimi anni del XX secolo. Si possono quindi vedere i due romanzi, ognuno a suo modo, come il risultato dell’esigenza di una generazione di scrittrici di confrontarsi con le donne che le hanno precedute, attraverso la ricerca di un diverso approccio alle tematiche che gravitano attorno al pianeta donna, che si può certamente definire come post-femminista.
In entrambi i libri si tracciano i contorni di tre generazioni rappresentate da nonna, mamma e nipote. E mentre Va’ dove ti porta il cuore, a causa di una certa saggezza un po’ kitsch5 a mo’ di Calendario di frate Indovino6 che sciorinava ad ogni pagina, scivolava inesorabilmente nella categoria del nazionalpopolare, Il catino di zinco annunciava una nuova scrittrice di talento. Queste tre generazioni rappresentano la donna italiana dal dopoguerra ad oggi, con tutti i cambiamenti, le trasformazioni e le conquiste, ma anche le sconfitte, attraverso le quali è passata questa fondamentale protagonista della società italiana. Non a caso il risvolto di copertina de Il catino di zinco presenta il libro in questo modo:
«Un libro di una donna sulle donne, Il catino di zinco fa i conti con il femminismo e il post-femminismo senza smancerie e senza sentimentalismi, persino con qualche crudezza e qualche asprezza».
La protagonista del romanzo è Antenora, la nonna di Margaret Mazzantini, la cui storia, che comincia già con quella di sua madre Raimonda, copre quasi un secolo di storia d’Italia. Antenora è una sorta di eroina del quotidiano che sfida la vita. E, del resto, la quotidianità che sa di un mondo antico è già egregiamente evocata dal titolo che rende onore ad un oggetto ormai scomparso, ma che un tempo, comunissimo in ogni casa, era indispensabile per le abluzioni di grandi e piccini.
La nonna Antenora con i suoi principi e il suo modo d’essere donna cresce in un mondo dove nascere donna era già essere inferiore: inferiore ai fratelli, subalterna al marito. Antenora affronta due guerre mondiali e il fascismo come figlia, amante, moglie e madre; subalterna sì, ma sempre forte, senza mai mostrare di avere avuto i dubbi, le crisi e le depressioni che attanagliano le donne molto più emancipate di oggi che pure si trovano di fronte a sfide che al confronto sembrano ridicole.8 Il racconto di questa vita comincia dalla sua fine e quindi dall’immagine triste di un corpo ormai inerte e scomposto:
«Lei stava lì, stesa sotto la volta, tra tanfo di ceri gigli e muffito. […] un abito nero, frusto, che la prosciugava ancora di più. Non ce n’erano altri tra le naftaline del suo armadio quattro stagioni. Non ne aveva, lei, di abiti neri. Supina, rivolta al niente, la compostezza delle mani, aggranchite sul ventre insieme a un rosario, non bastava a difenderla».9
La quotidianità antica del titolo e poi l’umanità inerte dell’incipit fanno da sfondo che mette ancor più in risalto una vita di donna che è certamente esemplare, non solo per la scrittrice/nipote, ma anche per la lettrice ideale a cui questo romanzo è rivolto. Autrice e lettrice possono, infatti, osservare Antenora dal di fuori, ma al contempo, possono quasi “specchiarsi” in questo personaggio di donna invecchiata tra mille avventure date da una storia fatta di guerre, grandi cambiamenti epocali e quotidianità, per vedere come saranno loro da vecchie e chiedersi se potranno finire anche loro con tanta dignità.
Dal punto di vista stilistico Il catino di zinco si distingue per il grande contrasto tra una lingua che sembra tendere al ricercato aulico e un favellare al limite della volgarità; una volgarità smorzata solo dall’aura del quotidiano e dall’atmosfera familiare. A ben vedere, molte parole sono spesso veri e propri neologismi generati dai ricordi dell’uso del dialetto o dell’italiano quotidianamente parlato che si sposa con una lingua d’antan. Un’operazione artistica che una volta ammannisce il lettore, un’altra lo stimola ad indovinare per lusingarlo nella consapevolezza di aver capito nonostante tutto, e che, infine, può anche sconcertarlo senza però annoiarlo mai:10
«Io guardavo le amiche di nonna. Il riverbero impudente del sole illuminava le porosità della pelle, sotto chiazze di cipria mal stesa, e il rossetto incanalato su per le rughe intorno alle labbra. Buttavo per terra il tovagliolo, e scomparivo a raccoglierlo. In basso, assieme alle zampe arrugginite del tavolino, c’erano visoni dal taglio antiquato, caviglie ossidate dentro calze da riposo, e odore di fica vecchia».11
oppure:
«Alto, estremamente delicato, Gioacchino si girò verso quella frignata. Fino ad allora non s’era accorto di nulla: col temper
ino stava lavorandosi un bastoncello. Accidentalmente in quel mucchio di ragazze accosciate, i suoi occhi si appoggiarono su una mano che cercava saliva tra le labbra. Non fece altro che seguire questa mano. Nonna s’andò a lenire un graffietto sulla gamba. E lui vide un paio di gambe sparse sul prato, fruste di pane bianco, e caviglie fatte di solo osso, dove s’arrotolavano i calzini lenti di filo bianco. Per tenerezza s’accostò e stette ad aspettarla. Forse avrebbe dovuto andarsene così. Perché quando lei alzò la testa, il poromo capì che dall’intenzione selvatica di quegli occhi non si sarebbe salvato più».12
Per il resto, la narrazione riesce a catturare l’attenzione del lettore nonostante presenti ogni tanto una punteggiatura troppo disinvolta e, in alcuni momenti, perda di fluidità. Ma anche quest’aspetto, forse criticabile, considerando che si trattava di un’opera prima, può essere visto oggi, leggendo Non ti muovere, come una piccola battaglia personale della scrittrice con il mezzo espressivo, alla ricerca di un giusto equilibrio tra lingua e tecnica diegetica che vuole diventare espressione di una propria originalità.13 E, del resto a ben vedere, la Mazzantini, nonostante il successo di vendite, non sembra ancora essere arrivata alla definitiva caratterizzazione del suo stile.
A Il catino di zinco, una sorta d’intimistico regolamento di conti con i ricordi di una bambina che guarda con ammirazione alla propria nonna come alla rappresentante di una generazione di donne che affrontavano la vita come capitani sul cassero, in navigazione su un oceano di difficoltà e incognite, segue Manola. In Manola (Mondadori, 1998) la Mazzantini affronta un ampio ventaglio di problematiche legate alla donna d’oggi e lo fa con le armi dell’ironia e con un uso funambolico dello stream of consciousness camuffato da dialogo, che è in realtà un doppio monologo interiore scritto per il teatro,14 che finisce per lambire spregiudicatamente persino le sponde del fantastico. Le protagoniste di questo romanzo sono Anemone e Ortensia, due sorelle gemelle “non monozigote” che non solo non si assomigliano, ma hanno addirittura carattere e aspetto diametralmente opposti. Le due gemelle dissimili dai nomi di fiori15 rappresentano due poli che racchiudono l’universo femminile di cui il libro affronta tutte le problematiche umanamente immaginabili. Il loro essere personaggi si potrebbe definire “verbale”. Le due protagoniste esistono, infatti, perché monologanti e contemporaneamente oggetto dei monologhi dell’altra sorella gemella. Nasce così un gioco di specchi che vede Manola come lo specchio principale a cui si rivolgono le due sorelle. Manola è una Zingara a cui Anemone e Ortensia si rivolgono interroganti in quello che è un finto dialogo psicoanalitico, visto che Manola non dice mai una parola. Il gioco di specchi con Doppelgänger dissimulati, la rielaborazione dell’infanzia, il rapporto con l’uomo e, infine, anche il titolo – benché solo un’assonanza16 – ricordano Malina, il tormentato libro di Ingeborg Bachmann, dove il personaggio si sdoppia in proiezioni criptiche su due partner maschili anch’essi probabilmente inesistenti. Altri personaggi da segnalare sono: i genitori delle gemelle – quasi certamente un flash autobiografico familiare appena celato dietro un grottesco felliniano – , un uomo, Poldo e un tacchino, Grogo, che non solo parla ma che all’occorrenza guida anche il sidecar.
Tutto il libro è intriso di un’autoironia al femminile che è, senza ombra di dubbio, la migliore di cui si possa avere memoria nella letteratura italiana. È chiaro però che Anemone e Ortensia rappresentano sostanzialmente un unico personaggio anche se doppio, una sorta di Giano bifronte che raffigura il conflitto interiore della donna italiana degli ultimi trent’anni. Una donna combattuta tra la necessità dell’emancipazione dal maschio, visto come essere “altro” a volte repellente anche se irrimediabilmente necessario, e, dall’altra parte, una “donna con la gonna” che fa di tutto pur di piacere all’uomo, costringendosi ad atteggiamenti ormai considerati di sottomissione o peggio di reificazione di sé.
Ortensia e Anemone – una brutta e intellettuale, e l’altra bella e frivola come una Barbie – passano in rassegna nelle loro sedute similanalitiche, parlando delle loro esperienze, gli ultimi trent’anni di cambiamenti e mode. Il sessantotto e il comunismo, la minigonna, l’amore libero, le mode culturali, il femminismo, Freud e l’inconscio, le diete, lo yoga e Hare Krisna, stili di vita vegetariani e nudisti, l’ecologismo apocalittico: tutto passa nel tritacarne di una verve ironica e straripante di una scrittrice che ha nel mirino sostanzialmente la donna e la sua storia più recente.
«”Razzolava bene Freud, faceva presto lui! Ai suoi tempi c’era un bel po’ di materiale stuzzicante. C’erano valanghe di repressi, di isteriche, tante belle regole rigide, solide convenzioni, una frastagliata gamma di tabù, ideali lapidari, famiglione coriacee, signorine con i pruriti sotto i gonnelloni, nessun omosessuale dichiarato… Ma oggi, la musica è cambiata. Oggi, tutti se lo lasciano posizionare nel deretano con allegria, cara Anemone. Non esiste più il senso di colpa, non esiste più la famiglia, non c’è più neppure uno sputo di fede, una scorreggia di moralità a fare ostruzionismo. Tutto è stato raso al suolo. C’è solo siccità e miseria. Ortensia, lei sì che era formidabile, così Ottocento che s’affaccia al Novecento, così meravigliosamente fin de siècle! Ma ora che anche lei ha buttato ai pesci le squame del vecchio mondo, per tuffarsi arditamente nel nuovo millennio, tutto è perduto. Cosa mi consiglia, cara Anemone, la bocca la faccio come le unghie, o leggermente più prugnacea?” Era passata al maquillage facciale, mi sembrava tesa, la sua inesperienza nel campo doveva pesarle».17
La donna come soggetto dello sviluppo narrativo e del pensiero interiore della pur breve produzione narrativa della Mazzantini nasce probabilmente da un conflitto interiore della scrittrice sia come donna che come artista. Il conflitto si potrebbe definire “schizofrenico”, una sorta di sdoppiamento della personalità dell’autrice stessa nei suoi personaggi femminili. Con questo giudizio non si vuole però togliere nulla né al valore estetico delle singole opere né alla tematizzazione del rapporto/conflitto tra i sessi che la Mazzantini trasferisce sul foglio. Questa schizofrenia dà vita ad una dualità focalizzata sul soggetto donna, se poi questa donna mostra a volte delle sembianze autobiografiche, la cosa rientra assolutamente nella normalità, e qui non si può che laconicamente ricordare l’affermazione di Flaubert che della povera Emma Bovary diceva appunto: “Mme Bovary c’est moi”. Leggendo i libri della Mazzantini si ha la netta impressione che tutti i personaggi femminili siano visti da dentro e creati sulla base del vissuto.18 In Manola il conflitto della donna con se stessa acquista attualità, qui la schizofrenia è evidente e non metaforica ed è presente con tutti i suoi aspetti anche patologici che sono analizzati in maniera minuziosa e impietosa.
La parabola del confronto della donna con la donna, che, in concreto, si sviluppa tramite il confronto dell’autrice con se stessa e con i suoi personaggi, continua con Non ti muovere. Questo romanzo affronta il problema della donna e del suo sdoppiarsi tra un istinto primordiale e animalesco fatto anche di sottomissione, da una parte, e la sua avvenuta emancipazione, dall’altra; il tutto mostrato allo specchio del comportamento smarrito di un uomo. Un personaggio protagonista creato e messo in fabula, non solo per essere tartassato dall’inevitabile processo morale che s’impone alle sue incertezze e al suo comportamento inconseguente e vile, ma anche – soprattutto – per interagire con il mondo femminile.
Il romanzo presenta due situazioni narrative. La prima è minima, e fa da cornice e propone prima l’incipit con l’incidente di Angela e poi l’explicit con il buon esito
dell’operazione cominciata all’ospedale dove era stata trasportata. La seconda è una storia centrale, caratterizzata da una narrazione/confessione e, come per Manola, ancora una volta a mo’ di flusso di coscienza costellata da analessi e prolessi. La voce narrante è Timoteo, il protagonista e padre di Angela. Nella storia che fa da cornice, troviamo anticipata la catarsi drammatica dalla quale scaturisce la storia principale, una confessione del padre, che è chirurgo nello stesso ospedale in cui è stata trasportata la figlia gravemente ferita dopo un incidente. Questi è costretto ad aspettare impotente l’esito dell’operazione fuori dalla sala operatoria. Che cosa può fare un padre in una situazione simile se non pregare? Timoteo prega a modo suo, e lo fa confessandosi idealmente con la figlia. A questo punto va messo in evidenza il gioco consapevole che la Mazzantini fa con i nomi dei suoi personaggi. Il nome di Angela per la figlia sottolinea, infatti, quasi la funzione di questo personaggio che potrebbe sembrare marginale e che ha invece il ruolo importantissimo e angelico di raccogliere la confessione del padre, per poi assolverlo idealmente. Il nome del protagonista Timoteo, invece, cela nell’etimologia greca il significato di “colui che onora”. Quello che fa Timoteo nel suo racconto-confessione, infatti, non è altro che onorare la memoria di una donna che lui ha amato con grande passione e con poco coraggio.
Ad una lettura più attenta e libera da moralismi, allora, il romanzo non tematizza soltanto le incertezze e gli errori troppo umani di Timoteo, ma le azioni di personaggi femminili che innescano questi meccanismi.19 L’uomo, a ben vedere, continua ad essere come il poco attraente Poldo, il personaggio maschile di Manola, caratterizzato soprattutto dalle sue impellenze fisiche. Ma le donne, che in Non ti muovere sono il mondo di Timoteo, sono le sponde dove la sua vita rimbalza come una palla da bigliardo. E le traiettorie di questa pallina sono impresse per lo più proprio dagli atteggiamenti e dai comportamenti di queste donne.20 A cominciare dalla madre di Timoteo, anche se forse, per correttezza cronologica, si dovrebbe dire a cominciare dalla figlia e dall’incidente che lei ha subito da cui scaturisce la confessione. Né è un caso che il romanzo finisca con una frase che diventa una chiave interpretativa:
«Ho fame. Una ragazza sta venendo verso di me per prendere l’ordine. Ha un viso schiacciato, un grembiule a righe, un vassoio sotto il braccio. È l’ultima donna di questa storia».21
Non ti muovere è, infatti, ancora una volta soprattutto un romanzo che parla di donne. Timoteo si confessa con sua figlia, una donna che ama di un amore paterno, e le racconta quanto ha di più intimo come in un voto ideale da offrire a Dio per riscattare la sua giovane vita e non perderla come indegnamente aveva già perso quella di un’altra donna, Italia, che aveva amato di un altro tipo d’amore, un amore assolutamente passionale. Una maniera d’amare deteriore forse, ma sorprendentemente vera, come vera era Italia, con la sua bruttezza e la sua volgarità e la sua sottomissione. Italia è una sorta di Mr. Hyde della moglie, il doppio negativo e nascosto di una donna bella, intelligente ed emancipata, ma irrimediabilmente fredda, per la quale il protagonista non riesce a provare l’amore che prova per l’amante. L’emancipazione di Elsa – elegante per contrapposizione anche nel nome, oltre che nei modi, nel livello culturale e nell’estrazione sociale – l’ha resa fredda, altera, quasi finta e poco attraente. Timoteo la descrive in atteggiamenti pressoché ridicoli perché lei ha perso ogni possibile spontaneità istintiva.
«Ha una natura sdegnosa, altera negli intenti, nelle linee del corpo. Non mi appartiene, non mi è mai appartenuta, ora ne sono certo. Non siamo programmati per appartenerci, siamo programmati per vivere assieme, per condividere lo stesso bidet. […]
Mi guarda in un modo che conosco, anche se solo adesso mi sembra di decifrare il sentimento imprigionato dentro quelle retine opache: lì c’è una mancanza, un arresto, un muro. I suoi sono gli occhi di una stupida. È una scoperta esplosiva. Dietro tanta apparente intelligenza si cela una patina di coriacea sordità, quasi un’assenza di coscienza: è la sua scappatoia al dolore. Sono gli occhi che mette quando è in difficoltà, quelli con i quali finge di capirmi, mentre invece mi abbandona a me stesso. […]
Quella sera facciamo l’amore. È tua madre che mi prende, non l’ho mai vista così ardita. «Piano» sussurro ridacchiando, «piano». Ma lei è più forte di me, ha un suo progetto. Mi sta abbattendo addosso un carico di energie costipate, stanotte sono la sua presa a terra. La sua una farsa erotica, che deve aver assimilato in qualche lettura, o al cinema. Stanotte ha deciso per la passione bruciante. E io sono in mezzo, sbalestrato, un ronzino scaraventato in una gara al galoppo. Ora scivolata in basso, ansima sotto il mio ventre. Non sono abituato a vederla così sottomessa. Mi sento in colpa come se a causa mia lei acconsentisse a depravarsi. Voglio andarmene, voglio scappare via da questo letto, invece rimango. Ora sono eccitato, ho guardato la sua testa e ho pensato… E quel pensiero mi ha eccitato. Mi rovescio addosso al corpo di tua madre, lo maltratto. La spingo ai piedi del letto e la prendo come una capra e mentre lo faccio mi chiedo cosa sto facendo. Dopo era sotto di me come un uovo rotto, si era girata nel suo guscio frantumato e mi guardava con una nuova intenzione. Sembrava felice e malvagia come una strega che è riuscita in un sortilegio. Per la prima volta da quando l’avevo conosciuta, ho pensato che volevo lasciarla».22
Elsa è razionale, troppo razionale, e forse, per questo, meno umana. Italia è irrazionale, nelle sue incomprensibili scelte, che sono fatte di passività; è istintiva, sottomessa, anche a causa dell’allucinante esperienza di violenza subita dal padre da giovane, ma è incredibilmente vera. E non è solo Timoteo che finisce per amarla. A chi va tutta la simpatia della lettrice o del lettore se non a lei?
«Cosa vuol dire amare, figlia mia? Tu lo sai? Amare per me fu tenere il respiro di Italia nelle braccia e accorgermi che ogni altro rumore si era spento. Sono un medico, so riconoscere le pulsazioni del mio cuore, sempre, anche quando non voglio. Te lo giuro, Angela, era di Italia il cuore che batteva dentro di me».23
Italia rappresenta una condizione femminile per certi aspetti finita, e dobbiamo dire, grazie a dio, finita in Italia e in gran parte d’Europa, ma rappresenta anche un tipo di donna che ha indubbiamente dei pregi che si sono sottovalutati e buttati via come si butta via il bimbo con l’acqua sporca, perché visti come volgari e impresentabili al cospetto dell’emancipazione femminile condotta con la mannaia della razionalità. È sintomatico come Timoteo immagini l’incontro tra le due donne e come ne descriva gli atteggiamenti.
«La vedo che bussa alla porta della mia casa, finge di essere una rappresentante, […]. Ha gli occhi cupi mentre suona il campanello e trema, occhi che s’illuminano quando vede Elsa e la prega di lasciarla entrare. Elsa è assonnata, indossa la sua camicia da notte écru, il corpo nudo e caldo nello chiffon di seta. Italia è piccola, ha gore bagnate sotto le braccia perché ha sudato, ha sudato in autobus, ha sudato tutta la notte, si è rovesciata nel sonno. Guarda la casa, i libri, le fotografie, i seni di Elsa, turgidi, ancora scuri di sole. Pensa a quelle cipolle vuote che riposano sulle costole e al cuore che batte là sotto. Indossa quella ridicola gonna con la fascia elastica che le scivola sui fianchi. Elsa le sorride. È solidale con le creature del suo stesso sesso, anche le più modeste, è una donna emancipata, l’indulgenza le sembra un dovere. Italia no, ha un figlio nella pancia, sotto quella gonna da bancarella, lei non è indulgente. Elsa si volta: “Dimmi, cosa vuoi?” (di solito dà del tu alle ragazze di ceto inferiore). Italia si sente male, ha l
e vertigini, non ha dormito e non ha mangiato».24
Elsa ha raggiunto l’apice dell’emancipazione, ma è come un albero le cui fronde sono state potate senza alcun riguardo e ha finito per perdere un’umanità e un calore femminile che, pur nella sua bruttezza e povertà, Italia possiede ancora. Timoteo è combattuto tra questi due tipi estremi di donna, così come lo è probabilmente anche la Mazzantini che aveva già tematizzato apertamente questo tipo di schizofrenia della donna nelle due gemelle di Manola. A questo proposito va citata la versione cinematografica con l’interpretazione assolutamente riuscita di una bravissima Penélope Cruz. L’interpretazione che l’attrice spagnola fa di Italia conferma le caratteristiche di questo personaggio così estremamente tellurico e primordiale e tuttavia dotato di una grande umanità nella sua rappresentazione realistica. Le scene di periferia del film accompagnate dalle note apocalittiche di The Final Countdown,25 richiamano alla memoria altre apocalissi cinematografiche e suburbi romani di pasoliniana memoria, per i quali però era stata fatta ben altra scelta (Bach) per l’accompagnamento musicale. La bellezza e la desolazione del paesaggio delle periferie italiche devastate dalla costruzione di casermoni fanno da pendant alla bellezza sottoproletaria di Italia e al waste land interiore del protagonista. Ma nel film, purtroppo, si perde decisamente la contrapposizione dei due personaggi femminili a vantaggio della figura di Timoteo che nel libro, essendo voce narrante, aveva giocoforza una minore centralità prospettica.
Concludendo, mi interessa mettere ancora in evidenza alcuni punti fondamentali: ne Il catino di zinco – come ha fatto anche la Susanna Tamaro in Va’ dove ti porta il cuore – rispondendo probabilmente ad un’esigenza generazionale, la Mazzantini propone una riflessione “storica” sul ruolo della donna dall’inizio del secolo fino ad oggi rivisto nella vita e nelle peripezie della nonna Antenora. In questo romanzo la scrittrice, pur denunciandone la subalternità, non cela la sua ammirazione per un certo tipo di donna delle generazioni precedenti. Anche Manola è un libro di una donna per le donne. La donna doppia è qui presentata con un monologare nevrotico questa volta focalizzato solo sugli ultimi trent’anni di storia dell’emancipazione femminile dove si affrontano anche molti problemi tuttora irrisolti. Nel libro, a disinnescare tematiche veterofemministe dai potenziali esplosivi, arrivano, oltre alla comicità, sprazzi di fantastico che probabilmente servono anche ad occultare insospettabili, ma al contempo, inevitabili pennellate autobiografiche. E per finire, in Non ti muovere troviamo per la prima volta le donne nel ruolo di deuteragoniste in un apparente secondo piano, perché viste attraverso gli occhi di un uomo tormentato, insoddisfatto e insicuro. Anche in questo romanzo però viene riproposta una donna doppia scissa in due personaggi femminili in concorrenza e diametralmente opposti. Timoteo, il protagonista, sembra avere una netta simpatia per una delle due donne, Italia, che non rappresenta affatto quello che è l’attuale ideale della donna moderna. Questo fatto innegabile, riletto considerando le altre figure di donne protagoniste dei libri della Mazzantini, non va assolutamente sottovalutato e andrebbe approfondito non soltanto in un’inevitabile analisi freudiana dei personaggi, ma anche in una rilettura gender della produzione di questa brava scrittrice.
In un’intervista rilasciata a «L’espresso» la Mazzantini cita Franz Kafka che diceva: «non voglio perdere i miei demoni. Ho paura di perdere i miei angeli».26 I demoni e gli angeli della Mazzantini hanno un sesso e sono femmine.
Margaret Mazzantini è italiana, ma è nata Dublino, figlia d’arte di madre irlandese e pittrice, Anna Donnelly, e di padre italiano e scrittore, Carlo Mazzantini. Ha trascorso la sua infanzia a Tivoli in campagna a due passi da Roma, dove poi ha studiato presso l’Accademia Nazionale d’Arte Drammatica. Le sue prime esperienze artistiche sono teatrali come interprete di personaggi femminili dal grande spessore e dal destino tragico. Come attrice ha debuttato nel 1982 con Ifigenia di Goethe. Tra le sue interpretazioni troviamo, tra le altre, Le tre sorelle di Čechov (1984-85), La signora Giulia di Strindberg (1985-86), Antigone di Sofocle (1986), L’alcalde di Zalamea di Calderón de la Barca (1984-85) oltre anche a non pochi ruoli in film per il grande schermo.4 Il mondo al femminile è decisamente presente anche in tutti i suoi romanzi e la donna, sia essa protagonista o deuteragonista, è proposta da diversi punti di vista per essere poi osservata, descritta, ammirata, messa in discussione e confrontata con il mondo circostante.
Con questo saggio si vuole invitare ad una riflessione complessiva sui romanzi fin qui pubblicati da questa scrittrice. Romanzi che vanno letti (ma forse dovrei dire meglio “ri-letti”) come un vero e proprio esempio di percorso a sviluppo di un unico tema: la donna e, quindi, come unmodello esemplare di écriture féminine. Il personaggio femminile proposto dalla Mazzantini è, infatti, da leggere sempre come una provocazione che invita ad un’ineluttabile riflessione sulla posizione della donna nella nostra società di ieri e di oggi (e, inevitabilmente, anche sul suo futuro). Le donne dei romanzi della Mazzantini sono raccontate da diversi punti di vista e tratteggiate con diverse sfaccettature e rappresentano un personaggio che, oggi, arrivato ad un crocevia epocale, è presentato come doppio, diviso come un’erma bifronte con un volto che guarda al passato e uno al futuro. Questa divisione è vissuta in mezzo a mille conflitti che opprimono e dilaniano la donna che si pone di fronte al dilemma della scelta della nuova strada da percorrere nel nuovo secolo.
Il catino di zinco è il romanzo d’esordio dell’allora trentatreenne scrittrice. Vale la pena di cominciare con quest’opera prima, segnalando un’interessantissima coincidenza, per certi versi “storica”, legata alla sua pubblicazione. Il romanzo fu pubblicato, infatti, lo stesso anno di Va’ dove ti porta il cuore di Susanna Tamaro, una delle poche altre scrittrici italiane che ha superato il tetto del milione di copie vendute proprio con quel libro. Questi due libri hanno come protagoniste due nonne e presentano in sostanza, anche se in modo diverso, lo stesso tema dei rapporti generazionali tra donne negli ultimi anni del XX secolo. Si possono quindi vedere i due romanzi, ognuno a suo modo, come il risultato dell’esigenza di una generazione di scrittrici di confrontarsi con le donne che le hanno precedute, attraverso la ricerca di un diverso approccio alle tematiche che gravitano attorno al pianeta donna, che si può certamente definire come post-femminista.
In entrambi i libri si tracciano i contorni di tre generazioni rappresentate da nonna, mamma e nipote. E mentre Va’ dove ti porta il cuore, a causa di una certa saggezza un po’ kitsch5 a mo’ di Calendario di frate Indovino6 che sciorinava ad ogni pagina, scivolava inesorabilmente nella categoria del nazionalpopolare, Il catino di zinco annunciava una nuova scrittrice di talento. Queste tre generazioni rappresentano la donna italiana dal dopoguerra ad oggi, con tutti i cambiamenti, le trasformazioni e le conquiste, ma anche le sconfitte, attraverso le quali è passata questa fondamentale protagonista della società italiana. Non a caso il risvolto di copertina de Il catino di zinco presenta il libro in questo modo:
«Un libro di una donna sulle donne, Il catino di zinco fa i conti con il femminismo e il post-femminismo senza smancerie e senza sentimentalismi, persino con qualche crudezza e qualche asprezza».
La protagonista del romanzo è Antenora, la nonna di Margaret Mazzantini, la cui storia, che comincia già con quella di sua madre Raimonda, copre quasi un secolo di storia d’Italia. Antenora è una sorta di eroina del quotidiano che sfida la vita. E, del resto, la quotidianità che sa di un mondo antico è già egregiamente evocata dal titolo che rende onore ad un oggetto ormai scomparso, ma che un tempo, comunissimo in ogni casa, era indispensabile per le abluzioni di grandi e piccini.
La nonna Antenora con i suoi principi e il suo modo d’essere donna cresce in un mondo dove nascere donna era già essere inferiore: inferiore ai fratelli, subalterna al marito. Antenora affronta due guerre mondiali e il fascismo come figlia, amante, moglie e madre; subalterna sì, ma sempre forte, senza mai mostrare di avere avuto i dubbi, le crisi e le depressioni che attanagliano le donne molto più emancipate di oggi che pure si trovano di fronte a sfide che al confronto sembrano ridicole.8 Il racconto di questa vita comincia dalla sua fine e quindi dall’immagine triste di un corpo ormai inerte e scomposto:
«Lei stava lì, stesa sotto la volta, tra tanfo di ceri gigli e muffito. […] un abito nero, frusto, che la prosciugava ancora di più. Non ce n’erano altri tra le naftaline del suo armadio quattro stagioni. Non ne aveva, lei, di abiti neri. Supina, rivolta al niente, la compostezza delle mani, aggranchite sul ventre insieme a un rosario, non bastava a difenderla».9
La quotidianità antica del titolo e poi l’umanità inerte dell’incipit fanno da sfondo che mette ancor più in risalto una vita di donna che è certamente esemplare, non solo per la scrittrice/nipote, ma anche per la lettrice ideale a cui questo romanzo è rivolto. Autrice e lettrice possono, infatti, osservare Antenora dal di fuori, ma al contempo, possono quasi “specchiarsi” in questo personaggio di donna invecchiata tra mille avventure date da una storia fatta di guerre, grandi cambiamenti epocali e quotidianità, per vedere come saranno loro da vecchie e chiedersi se potranno finire anche loro con tanta dignità.
Dal punto di vista stilistico Il catino di zinco si distingue per il grande contrasto tra una lingua che sembra tendere al ricercato aulico e un favellare al limite della volgarità; una volgarità smorzata solo dall’aura del quotidiano e dall’atmosfera familiare. A ben vedere, molte parole sono spesso veri e propri neologismi generati dai ricordi dell’uso del dialetto o dell’italiano quotidianamente parlato che si sposa con una lingua d’antan. Un’operazione artistica che una volta ammannisce il lettore, un’altra lo stimola ad indovinare per lusingarlo nella consapevolezza di aver capito nonostante tutto, e che, infine, può anche sconcertarlo senza però annoiarlo mai:10
«Io guardavo le amiche di nonna. Il riverbero impudente del sole illuminava le porosità della pelle, sotto chiazze di cipria mal stesa, e il rossetto incanalato su per le rughe intorno alle labbra. Buttavo per terra il tovagliolo, e scomparivo a raccoglierlo. In basso, assieme alle zampe arrugginite del tavolino, c’erano visoni dal taglio antiquato, caviglie ossidate dentro calze da riposo, e odore di fica vecchia».11
oppure:
«Alto, estremamente delicato, Gioacchino si girò verso quella frignata. Fino ad allora non s’era accorto di nulla: col temper
ino stava lavorandosi un bastoncello. Accidentalmente in quel mucchio di ragazze accosciate, i suoi occhi si appoggiarono su una mano che cercava saliva tra le labbra. Non fece altro che seguire questa mano. Nonna s’andò a lenire un graffietto sulla gamba. E lui vide un paio di gambe sparse sul prato, fruste di pane bianco, e caviglie fatte di solo osso, dove s’arrotolavano i calzini lenti di filo bianco. Per tenerezza s’accostò e stette ad aspettarla. Forse avrebbe dovuto andarsene così. Perché quando lei alzò la testa, il poromo capì che dall’intenzione selvatica di quegli occhi non si sarebbe salvato più».12
Per il resto, la narrazione riesce a catturare l’attenzione del lettore nonostante presenti ogni tanto una punteggiatura troppo disinvolta e, in alcuni momenti, perda di fluidità. Ma anche quest’aspetto, forse criticabile, considerando che si trattava di un’opera prima, può essere visto oggi, leggendo Non ti muovere, come una piccola battaglia personale della scrittrice con il mezzo espressivo, alla ricerca di un giusto equilibrio tra lingua e tecnica diegetica che vuole diventare espressione di una propria originalità.13 E, del resto a ben vedere, la Mazzantini, nonostante il successo di vendite, non sembra ancora essere arrivata alla definitiva caratterizzazione del suo stile.
A Il catino di zinco, una sorta d’intimistico regolamento di conti con i ricordi di una bambina che guarda con ammirazione alla propria nonna come alla rappresentante di una generazione di donne che affrontavano la vita come capitani sul cassero, in navigazione su un oceano di difficoltà e incognite, segue Manola. In Manola (Mondadori, 1998) la Mazzantini affronta un ampio ventaglio di problematiche legate alla donna d’oggi e lo fa con le armi dell’ironia e con un uso funambolico dello stream of consciousness camuffato da dialogo, che è in realtà un doppio monologo interiore scritto per il teatro,14 che finisce per lambire spregiudicatamente persino le sponde del fantastico. Le protagoniste di questo romanzo sono Anemone e Ortensia, due sorelle gemelle “non monozigote” che non solo non si assomigliano, ma hanno addirittura carattere e aspetto diametralmente opposti. Le due gemelle dissimili dai nomi di fiori15 rappresentano due poli che racchiudono l’universo femminile di cui il libro affronta tutte le problematiche umanamente immaginabili. Il loro essere personaggi si potrebbe definire “verbale”. Le due protagoniste esistono, infatti, perché monologanti e contemporaneamente oggetto dei monologhi dell’altra sorella gemella. Nasce così un gioco di specchi che vede Manola come lo specchio principale a cui si rivolgono le due sorelle. Manola è una Zingara a cui Anemone e Ortensia si rivolgono interroganti in quello che è un finto dialogo psicoanalitico, visto che Manola non dice mai una parola. Il gioco di specchi con Doppelgänger dissimulati, la rielaborazione dell’infanzia, il rapporto con l’uomo e, infine, anche il titolo – benché solo un’assonanza16 – ricordano Malina, il tormentato libro di Ingeborg Bachmann, dove il personaggio si sdoppia in proiezioni criptiche su due partner maschili anch’essi probabilmente inesistenti. Altri personaggi da segnalare sono: i genitori delle gemelle – quasi certamente un flash autobiografico familiare appena celato dietro un grottesco felliniano – , un uomo, Poldo e un tacchino, Grogo, che non solo parla ma che all’occorrenza guida anche il sidecar.
Tutto il libro è intriso di un’autoironia al femminile che è, senza ombra di dubbio, la migliore di cui si possa avere memoria nella letteratura italiana. È chiaro però che Anemone e Ortensia rappresentano sostanzialmente un unico personaggio anche se doppio, una sorta di Giano bifronte che raffigura il conflitto interiore della donna italiana degli ultimi trent’anni. Una donna combattuta tra la necessità dell’emancipazione dal maschio, visto come essere “altro” a volte repellente anche se irrimediabilmente necessario, e, dall’altra parte, una “donna con la gonna” che fa di tutto pur di piacere all’uomo, costringendosi ad atteggiamenti ormai considerati di sottomissione o peggio di reificazione di sé.
Ortensia e Anemone – una brutta e intellettuale, e l’altra bella e frivola come una Barbie – passano in rassegna nelle loro sedute similanalitiche, parlando delle loro esperienze, gli ultimi trent’anni di cambiamenti e mode. Il sessantotto e il comunismo, la minigonna, l’amore libero, le mode culturali, il femminismo, Freud e l’inconscio, le diete, lo yoga e Hare Krisna, stili di vita vegetariani e nudisti, l’ecologismo apocalittico: tutto passa nel tritacarne di una verve ironica e straripante di una scrittrice che ha nel mirino sostanzialmente la donna e la sua storia più recente.
«”Razzolava bene Freud, faceva presto lui! Ai suoi tempi c’era un bel po’ di materiale stuzzicante. C’erano valanghe di repressi, di isteriche, tante belle regole rigide, solide convenzioni, una frastagliata gamma di tabù, ideali lapidari, famiglione coriacee, signorine con i pruriti sotto i gonnelloni, nessun omosessuale dichiarato… Ma oggi, la musica è cambiata. Oggi, tutti se lo lasciano posizionare nel deretano con allegria, cara Anemone. Non esiste più il senso di colpa, non esiste più la famiglia, non c’è più neppure uno sputo di fede, una scorreggia di moralità a fare ostruzionismo. Tutto è stato raso al suolo. C’è solo siccità e miseria. Ortensia, lei sì che era formidabile, così Ottocento che s’affaccia al Novecento, così meravigliosamente fin de siècle! Ma ora che anche lei ha buttato ai pesci le squame del vecchio mondo, per tuffarsi arditamente nel nuovo millennio, tutto è perduto. Cosa mi consiglia, cara Anemone, la bocca la faccio come le unghie, o leggermente più prugnacea?” Era passata al maquillage facciale, mi sembrava tesa, la sua inesperienza nel campo doveva pesarle».17
La donna come soggetto dello sviluppo narrativo e del pensiero interiore della pur breve produzione narrativa della Mazzantini nasce probabilmente da un conflitto interiore della scrittrice sia come donna che come artista. Il conflitto si potrebbe definire “schizofrenico”, una sorta di sdoppiamento della personalità dell’autrice stessa nei suoi personaggi femminili. Con questo giudizio non si vuole però togliere nulla né al valore estetico delle singole opere né alla tematizzazione del rapporto/conflitto tra i sessi che la Mazzantini trasferisce sul foglio. Questa schizofrenia dà vita ad una dualità focalizzata sul soggetto donna, se poi questa donna mostra a volte delle sembianze autobiografiche, la cosa rientra assolutamente nella normalità, e qui non si può che laconicamente ricordare l’affermazione di Flaubert che della povera Emma Bovary diceva appunto: “Mme Bovary c’est moi”. Leggendo i libri della Mazzantini si ha la netta impressione che tutti i personaggi femminili siano visti da dentro e creati sulla base del vissuto.18 In Manola il conflitto della donna con se stessa acquista attualità, qui la schizofrenia è evidente e non metaforica ed è presente con tutti i suoi aspetti anche patologici che sono analizzati in maniera minuziosa e impietosa.
La parabola del confronto della donna con la donna, che, in concreto, si sviluppa tramite il confronto dell’autrice con se stessa e con i suoi personaggi, continua con Non ti muovere. Questo romanzo affronta il problema della donna e del suo sdoppiarsi tra un istinto primordiale e animalesco fatto anche di sottomissione, da una parte, e la sua avvenuta emancipazione, dall’altra; il tutto mostrato allo specchio del comportamento smarrito di un uomo. Un personaggio protagonista creato e messo in fabula, non solo per essere tartassato dall’inevitabile processo morale che s’impone alle sue incertezze e al suo comportamento inconseguente e vile, ma anche – soprattutto – per interagire con il mondo femminile.
Il romanzo presenta due situazioni narrative. La prima è minima, e fa da cornice e propone prima l’incipit con l’incidente di Angela e poi l’explicit con il buon esito
dell’operazione cominciata all’ospedale dove era stata trasportata. La seconda è una storia centrale, caratterizzata da una narrazione/confessione e, come per Manola, ancora una volta a mo’ di flusso di coscienza costellata da analessi e prolessi. La voce narrante è Timoteo, il protagonista e padre di Angela. Nella storia che fa da cornice, troviamo anticipata la catarsi drammatica dalla quale scaturisce la storia principale, una confessione del padre, che è chirurgo nello stesso ospedale in cui è stata trasportata la figlia gravemente ferita dopo un incidente. Questi è costretto ad aspettare impotente l’esito dell’operazione fuori dalla sala operatoria. Che cosa può fare un padre in una situazione simile se non pregare? Timoteo prega a modo suo, e lo fa confessandosi idealmente con la figlia. A questo punto va messo in evidenza il gioco consapevole che la Mazzantini fa con i nomi dei suoi personaggi. Il nome di Angela per la figlia sottolinea, infatti, quasi la funzione di questo personaggio che potrebbe sembrare marginale e che ha invece il ruolo importantissimo e angelico di raccogliere la confessione del padre, per poi assolverlo idealmente. Il nome del protagonista Timoteo, invece, cela nell’etimologia greca il significato di “colui che onora”. Quello che fa Timoteo nel suo racconto-confessione, infatti, non è altro che onorare la memoria di una donna che lui ha amato con grande passione e con poco coraggio.
Ad una lettura più attenta e libera da moralismi, allora, il romanzo non tematizza soltanto le incertezze e gli errori troppo umani di Timoteo, ma le azioni di personaggi femminili che innescano questi meccanismi.19 L’uomo, a ben vedere, continua ad essere come il poco attraente Poldo, il personaggio maschile di Manola, caratterizzato soprattutto dalle sue impellenze fisiche. Ma le donne, che in Non ti muovere sono il mondo di Timoteo, sono le sponde dove la sua vita rimbalza come una palla da bigliardo. E le traiettorie di questa pallina sono impresse per lo più proprio dagli atteggiamenti e dai comportamenti di queste donne.20 A cominciare dalla madre di Timoteo, anche se forse, per correttezza cronologica, si dovrebbe dire a cominciare dalla figlia e dall’incidente che lei ha subito da cui scaturisce la confessione. Né è un caso che il romanzo finisca con una frase che diventa una chiave interpretativa:
«Ho fame. Una ragazza sta venendo verso di me per prendere l’ordine. Ha un viso schiacciato, un grembiule a righe, un vassoio sotto il braccio. È l’ultima donna di questa storia».21
Non ti muovere è, infatti, ancora una volta soprattutto un romanzo che parla di donne. Timoteo si confessa con sua figlia, una donna che ama di un amore paterno, e le racconta quanto ha di più intimo come in un voto ideale da offrire a Dio per riscattare la sua giovane vita e non perderla come indegnamente aveva già perso quella di un’altra donna, Italia, che aveva amato di un altro tipo d’amore, un amore assolutamente passionale. Una maniera d’amare deteriore forse, ma sorprendentemente vera, come vera era Italia, con la sua bruttezza e la sua volgarità e la sua sottomissione. Italia è una sorta di Mr. Hyde della moglie, il doppio negativo e nascosto di una donna bella, intelligente ed emancipata, ma irrimediabilmente fredda, per la quale il protagonista non riesce a provare l’amore che prova per l’amante. L’emancipazione di Elsa – elegante per contrapposizione anche nel nome, oltre che nei modi, nel livello culturale e nell’estrazione sociale – l’ha resa fredda, altera, quasi finta e poco attraente. Timoteo la descrive in atteggiamenti pressoché ridicoli perché lei ha perso ogni possibile spontaneità istintiva.
«Ha una natura sdegnosa, altera negli intenti, nelle linee del corpo. Non mi appartiene, non mi è mai appartenuta, ora ne sono certo. Non siamo programmati per appartenerci, siamo programmati per vivere assieme, per condividere lo stesso bidet. […]
Mi guarda in un modo che conosco, anche se solo adesso mi sembra di decifrare il sentimento imprigionato dentro quelle retine opache: lì c’è una mancanza, un arresto, un muro. I suoi sono gli occhi di una stupida. È una scoperta esplosiva. Dietro tanta apparente intelligenza si cela una patina di coriacea sordità, quasi un’assenza di coscienza: è la sua scappatoia al dolore. Sono gli occhi che mette quando è in difficoltà, quelli con i quali finge di capirmi, mentre invece mi abbandona a me stesso. […]
Quella sera facciamo l’amore. È tua madre che mi prende, non l’ho mai vista così ardita. «Piano» sussurro ridacchiando, «piano». Ma lei è più forte di me, ha un suo progetto. Mi sta abbattendo addosso un carico di energie costipate, stanotte sono la sua presa a terra. La sua una farsa erotica, che deve aver assimilato in qualche lettura, o al cinema. Stanotte ha deciso per la passione bruciante. E io sono in mezzo, sbalestrato, un ronzino scaraventato in una gara al galoppo. Ora scivolata in basso, ansima sotto il mio ventre. Non sono abituato a vederla così sottomessa. Mi sento in colpa come se a causa mia lei acconsentisse a depravarsi. Voglio andarmene, voglio scappare via da questo letto, invece rimango. Ora sono eccitato, ho guardato la sua testa e ho pensato… E quel pensiero mi ha eccitato. Mi rovescio addosso al corpo di tua madre, lo maltratto. La spingo ai piedi del letto e la prendo come una capra e mentre lo faccio mi chiedo cosa sto facendo. Dopo era sotto di me come un uovo rotto, si era girata nel suo guscio frantumato e mi guardava con una nuova intenzione. Sembrava felice e malvagia come una strega che è riuscita in un sortilegio. Per la prima volta da quando l’avevo conosciuta, ho pensato che volevo lasciarla».22
Elsa è razionale, troppo razionale, e forse, per questo, meno umana. Italia è irrazionale, nelle sue incomprensibili scelte, che sono fatte di passività; è istintiva, sottomessa, anche a causa dell’allucinante esperienza di violenza subita dal padre da giovane, ma è incredibilmente vera. E non è solo Timoteo che finisce per amarla. A chi va tutta la simpatia della lettrice o del lettore se non a lei?
«Cosa vuol dire amare, figlia mia? Tu lo sai? Amare per me fu tenere il respiro di Italia nelle braccia e accorgermi che ogni altro rumore si era spento. Sono un medico, so riconoscere le pulsazioni del mio cuore, sempre, anche quando non voglio. Te lo giuro, Angela, era di Italia il cuore che batteva dentro di me».23
Italia rappresenta una condizione femminile per certi aspetti finita, e dobbiamo dire, grazie a dio, finita in Italia e in gran parte d’Europa, ma rappresenta anche un tipo di donna che ha indubbiamente dei pregi che si sono sottovalutati e buttati via come si butta via il bimbo con l’acqua sporca, perché visti come volgari e impresentabili al cospetto dell’emancipazione femminile condotta con la mannaia della razionalità. È sintomatico come Timoteo immagini l’incontro tra le due donne e come ne descriva gli atteggiamenti.
«La vedo che bussa alla porta della mia casa, finge di essere una rappresentante, […]. Ha gli occhi cupi mentre suona il campanello e trema, occhi che s’illuminano quando vede Elsa e la prega di lasciarla entrare. Elsa è assonnata, indossa la sua camicia da notte écru, il corpo nudo e caldo nello chiffon di seta. Italia è piccola, ha gore bagnate sotto le braccia perché ha sudato, ha sudato in autobus, ha sudato tutta la notte, si è rovesciata nel sonno. Guarda la casa, i libri, le fotografie, i seni di Elsa, turgidi, ancora scuri di sole. Pensa a quelle cipolle vuote che riposano sulle costole e al cuore che batte là sotto. Indossa quella ridicola gonna con la fascia elastica che le scivola sui fianchi. Elsa le sorride. È solidale con le creature del suo stesso sesso, anche le più modeste, è una donna emancipata, l’indulgenza le sembra un dovere. Italia no, ha un figlio nella pancia, sotto quella gonna da bancarella, lei non è indulgente. Elsa si volta: “Dimmi, cosa vuoi?” (di solito dà del tu alle ragazze di ceto inferiore). Italia si sente male, ha l
e vertigini, non ha dormito e non ha mangiato».24
Elsa ha raggiunto l’apice dell’emancipazione, ma è come un albero le cui fronde sono state potate senza alcun riguardo e ha finito per perdere un’umanità e un calore femminile che, pur nella sua bruttezza e povertà, Italia possiede ancora. Timoteo è combattuto tra questi due tipi estremi di donna, così come lo è probabilmente anche la Mazzantini che aveva già tematizzato apertamente questo tipo di schizofrenia della donna nelle due gemelle di Manola. A questo proposito va citata la versione cinematografica con l’interpretazione assolutamente riuscita di una bravissima Penélope Cruz. L’interpretazione che l’attrice spagnola fa di Italia conferma le caratteristiche di questo personaggio così estremamente tellurico e primordiale e tuttavia dotato di una grande umanità nella sua rappresentazione realistica. Le scene di periferia del film accompagnate dalle note apocalittiche di The Final Countdown,25 richiamano alla memoria altre apocalissi cinematografiche e suburbi romani di pasoliniana memoria, per i quali però era stata fatta ben altra scelta (Bach) per l’accompagnamento musicale. La bellezza e la desolazione del paesaggio delle periferie italiche devastate dalla costruzione di casermoni fanno da pendant alla bellezza sottoproletaria di Italia e al waste land interiore del protagonista. Ma nel film, purtroppo, si perde decisamente la contrapposizione dei due personaggi femminili a vantaggio della figura di Timoteo che nel libro, essendo voce narrante, aveva giocoforza una minore centralità prospettica.
Concludendo, mi interessa mettere ancora in evidenza alcuni punti fondamentali: ne Il catino di zinco – come ha fatto anche la Susanna Tamaro in Va’ dove ti porta il cuore – rispondendo probabilmente ad un’esigenza generazionale, la Mazzantini propone una riflessione “storica” sul ruolo della donna dall’inizio del secolo fino ad oggi rivisto nella vita e nelle peripezie della nonna Antenora. In questo romanzo la scrittrice, pur denunciandone la subalternità, non cela la sua ammirazione per un certo tipo di donna delle generazioni precedenti. Anche Manola è un libro di una donna per le donne. La donna doppia è qui presentata con un monologare nevrotico questa volta focalizzato solo sugli ultimi trent’anni di storia dell’emancipazione femminile dove si affrontano anche molti problemi tuttora irrisolti. Nel libro, a disinnescare tematiche veterofemministe dai potenziali esplosivi, arrivano, oltre alla comicità, sprazzi di fantastico che probabilmente servono anche ad occultare insospettabili, ma al contempo, inevitabili pennellate autobiografiche. E per finire, in Non ti muovere troviamo per la prima volta le donne nel ruolo di deuteragoniste in un apparente secondo piano, perché viste attraverso gli occhi di un uomo tormentato, insoddisfatto e insicuro. Anche in questo romanzo però viene riproposta una donna doppia scissa in due personaggi femminili in concorrenza e diametralmente opposti. Timoteo, il protagonista, sembra avere una netta simpatia per una delle due donne, Italia, che non rappresenta affatto quello che è l’attuale ideale della donna moderna. Questo fatto innegabile, riletto considerando le altre figure di donne protagoniste dei libri della Mazzantini, non va assolutamente sottovalutato e andrebbe approfondito non soltanto in un’inevitabile analisi freudiana dei personaggi, ma anche in una rilettura gender della produzione di questa brava scrittrice.
In un’intervista rilasciata a «L’espresso» la Mazzantini cita Franz Kafka che diceva: «non voglio perdere i miei demoni. Ho paura di perdere i miei angeli».26 I demoni e gli angeli della Mazzantini hanno un sesso e sono femmine.