Venti di sicilinconia, Medianova, Favara 2009,Piero Carbone

Venti di sicilinconia è l’ultimo tassello di una carriera poetica iniziata quando ancora l’Autore era giovanissimo e depone a favore d’un amore, culto, per la poesia e il dialetto che sembrano non lasciargli mai tregua. Ad esso ne seguiranno certamente altri perché Carbone è divenuto nel frattempo sinonimo di poesia, in lingua

 e soprattutto in dialetto. Vorrei semplicemente ricordare i titoli di alcune sue raccolte: A lu Raffu e Saracinu del 1988, La luna del ’94, Notturno in Via Atenea del ’93 e Pensamenti del 2008; per non parlare del Carbone saggista, giornalista, storico e critico d’arte.
   Il fatto è che Piero attribuisce alla poesia non solo una funzione consolatoria e catartica, ma anche rivelatrice di verità indicibili perché il poeta può dire “cosi niuri” mentre “pari ca babbìa” (E pari ca babbìa, pag. 40) tanto per gli altri – che “si cridinu stroìti e sapienti… grapinu l’uocchi” e “chjuinu la menti”( chjuinu la menti pag. 46) – quando fa roteare la sua scimitarra (Pensanu ch’è foddi, pag. 47), egli è semplicemente “foddi” e ad un pazzo si concede di tutti, non “ce ne facciamo” di niente.
   Appare, quindi, evidente che in Venti di sicilinconia, opera vincitrice del Premio Martoglio 2009, c’è anche il fustigatore di certo inveterato malcostume che, “nni sta fabbrica speciali” che è il nostro mondo (Ma nun è pi tutti uguali, pag. 39), è duro a morire, perché siamo tutti furbi, falsi moralisti (Ccu tuttu lu cunventu, pag. 64), pronti a cambiare bandiera in nome della democrazia (A ttia e a mmia, pag. 59) e ad indignarci. Ma alla fine vien da dire “Menu mali ca si mori” (Menu mali ca si mori, pag. 55). Sono versi pieni di saggezza critica, che dicono d’un acuto scrutatore della realtà, attento al dipanarsi della quotidianità della gente del suo paese, dei nostri paesi, della Sicilia che gli genera non “malapinzera” ma amare considerazioni che gli arrovellano il cervello, come colpi di maglio su un’incudine.
   L’incudine ci rimanda al titolo della silloge: vediamo di spiegarlo. E’ una questione di accenti, sui quali Carbone gioca: Sicilinconìe o Sicilincònie? Cioè: Sicilia e sicilianità come pensieri che martellano e non ci abbandonano mai o malinconie di siciliano? Penso che alla fine i significati dei due neologismi convergano. Salvatore Di Marco, che della raccolta ha curato da par suo la Prefazione, alla questione dedica ampio spazio e riesuma altri termini quali sicilitudine e isolitudine per cui non è il caso d’indugiare ulteriormente.
   Facciamo parlare i versi del Poeta:
“Ma chi sunnu sti sicilincunii?
Pinzera.
Pampini
Di vigna nvirdicata.
Pampini
D’un arbulu cadutu”
 (Silincunii, pag. 41)
E ancora : 
“…Pinzera, gruppa
Di firnicii”
Conti che non tornano (Mbriacatu di sicilincunia, pag. 32), per concludere che
“Silincùnia veni di ncunia 
Silincunìa veni di pena” 
(Sicilincùnia o Sicilincunìa ?, pag. 33)
   Queste risposte ci aiutano ad introdurre i temi trattati, che vanno dal disagio esistenziale al recupero della memoria, dal mistero della vita e della morte alla contemplazione della vastità dell’universo, dai mutamenti di pensiero e mentalità e dall’inesorabile trascorrere del tempo – per cui ciò che c’era non c’è più e tutti siamo come canne al vento – all’emigrazione e alla durezza di taluni lavori, dalla tragedia della guerra, sempre assurda, alla disperazione di quanti arrivano sulle nostre coste come “lapi / appizzati/ a na vrisca di feli / ncatinati” (N-silenziu si l’agghiutti, pag. 30). E c’è il malessere, la consapevolezza di ciò che poteva essere e non è stato, di un rapporto di rabbia-amore (Parpagliuni a la lumera, pag. 21) per la nostra terra, difficile da cambiare per cui si sente fuori posto o, addirittura, fuori tempo e di notte mentre “lu munnu tuttu taci / mi nni vaju nni li seculi passati” (C’è cu rrunculìa, pag. 18).
   Il tutto condito d’una amara ironia che smorza nostalgia e malinconia e narrato in modo elegante, con tono disincantato e tuttavia accattivante, che depongono della sua sensibilità ed originalità per cui, giustamente e meritatamente, la Giuria del premio ha potuto attribuirgli il Martoglio, sottolineando la “grande efficacia comunicativa” e “la chiarezza del dettato poetico”, che sigillano “la pronunciata sicilianità spirituale e culturale” di Carbone, che ha saputo conferire alla sua silloge “una struttura espositiva ed architettonica estremamente moderna” (Motivazione del premio). 
   Per concludere, due parole sulla lingua. Quella usata da Piero Carbone è il dialetto racalmutese, non quello letterario e colto, spesso artefatto, di G. Pedalino Di Rosa, ma quello di tutti i giorni, del parlare spicciolo della gente, della piazza, più aderente alle cose e, perciò, più vero e autentico, colloquiale, coinvolgente nella sua comunicabilità e che suscita l’approvazione di Di Marco che già, in prefazione a Pensamenti, aveva sottolineato questo aspetto della lingua di Piero, che aveva e ha “dismesso la tonaca degli artificiosi dialetti letterari”. 
   Venti di sicilinconia è diviso in due parti:la prima dà il nome alla raccolta, mentre la seconda è intitolata Lassatimi diri; in copertina reca la riproduzione di un quadro di Renzo Collura, Sale e zolfo, che sono l’emblema della nostra Provincia. Un libro, quindi, che raccomandiamo per la sua originalità, per l’impostazione strutturale nuova nella quale ogni componimento ci appare come un capitolo d’un romanzo che bisogna leggere tutto per gustarlo nella sua interezza. (eg) 

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