Giacinto SCHEMBRI, Tampasiannu … tampasiannu…,

(raccolta di poesie dialettali), S. Stefano Quisquina, 2002

NOTA introduttiva di Eugenio Giannone

   Quattromila anime in una landa periferia della provincia di Agrigento; poche case abbarbicate l’una sull’altra alle pendici di una collina, con le sue pietre sbiadite dal tempo, erose, quasi visi scavati dall’acqua, e smussate dal vento, imbronciate d’abbandono  e su cui domina, maestoso e isolato, il Calvario a ricordare supplizi di ieri e di oggi, i crucci di una comunità ormai dispersa ai quattro punti cardinali della terra.
   Cianciana: con i suoi paesaggi affascinanti e le sue strade silenti, ove non risuona più il cicaleccio delle comari; così giovane eppure già vecchia per le sue case vuote, per i suoi quartieri deserti.
   E le miniere chiuse.
   Un paese che non ha eretto grandi chiese e sontuosi palazzi, perché la sua gente, che consumava l’esistenza  nelle viscere della terra o zappandola, non aveva tempo e cuore per … vestigia a futura memoria. Eppure … Grandi monumenti allo spirito umano con una tradizione poetico-culturale che non ha forse eguali se rapportata al numero degli abitanti della sua storia e che dura ormai da tre secoli. Cominciò nel ‘700 il buon pievano don Vincenzo F. Sedita (1714-1799), che scrisse in vernacolo il poemetto epico Le avventure di lu su Ninu Di Blasi, alias Testalonga e numerose canzoni che i giovani resero popolari cantandole durante le attuarne (serenate notturne). Il Testalonga narra le imprese del famoso brigante di Pietraperzia che lasciò la testa sul patibolo di Mussomeli nel 1767. Si considerò suo discepolo spirituale l’altro prete-poeta don Salvatore Mamo (1839-1920), che tanto scrisse in dialetto, attribuendo alla poesia una funzione didascalica. Di Mamo colpiscono soprattutto la modernità del linguaggio e il carattere marcatamente, volutamente popolare delle sue poesie, la freschezza dell’ispirazione che ancora oggi lo rendono popolarissimo tanto da essere citato semplicemente come patri don Turiddu. Di notevole spessore, tra le altre, le raccolte Li cunticeddi di me nanna (1881) e Li cunticeddi di lu vecchiu (1911), che ritraggono, tra il serio e il faceto, momenti, fatti ed episodi di vita paesana di cui si sono nutrite generazioni di Ciancianesi.
Gaetano Di Giovanni (1839-1912) fu demopsicologo e storico; Francesco Arcuri (1776-1833), alto magistrato, esperto nelle lettere e nelle matematiche, introdusse in Sicilia l’uso della cera vegetale e la coltivazione dell’indaco; padre Benedetto Conti, vissuto tra ‘700 e ‘800, fu georgofilo e bonificò alcune zone improduttive della nostra Isola; fu poeta di raffinata cultura classica Gaetano Cordova, amico e coevo di Alessio Di Giovanni. A. Di Giovanni, mesto cantore del latifondo e della zolfara, è oggi unanimemente considerato uno dei più grandi, se non il più grande poeta dialettale siciliano. Su tutti valga il giudizio di Luigi Russo, che lo considerò il più grande cantore degli umili d’Italia dopo il Manzoni.
   Che dire, poi, di Giuseppe Antinori, medico, giornalista, garibaldino e sociologo antelitteram; o dei numerosi docenti universitari, come Fortunato Montuoro, Arcangelo De Michele, una dei primi ad insegnare Diritto canonico, che nell’’800 diedero lustro all’Ateneo palermitano?
   Nel secolo appena trascorso d. José Giannone fondò la facoltà di Scienze economiche dell’Università di Rosario e poetarono, oltre a Pasquale Alba, Emanuele Coniglio, Salvatore Re, morto in Canada, e Giuseppe Pulizzi con il suo grande affresco poetico, degno d’un abile pittore, La primavera di me nannu. Tra i viventi basti citare, nel campo poetico, don Filippo Ferraro, che s’incammina argutamente sulla scia del Sedita e del Mamo; Vincent D’Angelo, emigrato a Rive de Gier; Gaspare D’Angelo, Agostino D’Ascoli e un nugolo di giovani che tengono accesa la fiaccola dell’ispirazione poetica.
   Attualmente il ciancianese più famoso è Rino Cammilleri, le cui opere riempiono le librerie.
   Da dove, a che pro quest’amore grandioso verso la nobile arte dello scrivere? Come mai tanti verseggiatori in un centro così piccolo? Cosa li lega? Cos’ha di particolare il Ciancianese, così ciarliero e solare come pochi, così disincantato e dissacratore?
   Ecco: forse la solarità, forse il sapere apprezzare la vita nelle sue mille pieghe e sfaccettature, nei suoi momenti belli e tristi, nelle sue gioie semplici è la radice del suo canto, che è versi e musica assieme; nel sentimento pensoso dell’esistenza, conquistata giorno dopo giorno, sfidando costantemente la sorte nelle gallerie di una zolfara per cui ogni attimo era, è, una conquista da assaporare e da trasmettere agli altri per condividerla, en plein air, perché il Ciancianese è nato per vivere in piazza, nel grande salotto che è il corso (‘a chiazza, l’agorà).
   Nel solco di questa nobile tradizione, in questo clima culturale s’inserisce prepotentemente con la sua raccolta poetica, Giacinto SCHEMBRI, che, con Tampasiannu … tampasiannu … ora e con Zirrìu di papanzìcu del 1988, compie un’azione meritoria di salvaguardia di uno dei dialetti tra i più musicali, schieti e belli della Sicilia, recuperandone suoni e lemmi, espressioni e ritmi, peculiarità grammaticali (es.: il plurale in -a).
   E sembra proprio di sentirle le antiche comari, che, sedute al sole, sul davanzale delle loro porte, mentre fanno puntina, odoranti di carbonella e impastate di fieno e zolfo, vociano allegre rimembrando il tempo che fu. E la nota amara, quando il discorso si fa serio, pesante, e si abbandonano alla tristezza desolante della solitudine, al ricordo di coloro che sono andati via “assicurati di la fami / ma tennu, ‘mpinta all’arma, / la spranza / di turnari unni nasceru”, della giovinezza trascorsa , perché “lu dumani … pari sempri assenti”  e alla constatazione della condizione dell’anziano cui “sulu lu chantu … fa cumpagnia”.
   Poesia, dunque, come canto, canzone, che attraverso il recupero d’una passata temperie vuol invitare alla meditazione e alla gioia semplice della vita.
   Ma questo è già un altro discorso che spetta ad altri fare. (Eugenio Giannone)
   

 

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PREFAZIONE di Antonio Palermo

   E’ una silloge di 36 componimenti in dialetto siciliano ciancianese, cioè di Cianciana, il paese che ha dato i natali all’Autore nel lontano 1922.
   Si sottolinea la data di nascita di Giacinto Schembri per rilevare le attuali sue condizioni anagrafiche che lo fanno uomo maturo, o meglio anziano. E perché tale, egli ha avuto la ventura, come tutti i suoi coetanei, di attraversare momenti di civiltà diversi e contrastanti, pungolati dal cambiamento rapido ed irrefrenabile che da un tenore di vita rurale ha spinto verso il postmoderno, segnato dalla tecnologia avanzata e pervasiva.
   Il Nostro rigetta “st’ebica sbannuta e mala fatta” per guardare con gli occhi incantati della sua giovinezza eventi e comportamenti regolati dalle leggi di natura.
   Sono oggetto del suo canto gli aspetti sempre diversi del mondo creato nei momenti differenti dell’anno: il cielo, gli uccelli e, ovviamente, le persone.
   Tra le persone punto d’attrazione è la ragazza, e non poteva essere diversamente, colta anch’essa nella sua essenza primordiale, come un significativo “prodotto” del creato. Traspare, perciò, dall’insieme uno squarcio di civiltà contadina che rinnova i sapori del “pane di casa” e convince della genuina bontà d’una vita semplice che scorre lenta nella palude del ripetitivo.
   Ad una siffatta rappresentazione ben s’adegua l’uso del dialetto che è, nei confronti della lingua, genuina spontaneità che olezza talora di “truffa” e che, proprio per questo, si fa strumento primitivo di un mondo scomparso. Piace sottolineare che la scelta dei s
ostantivi e, ancor di più, degli aggettivi, collocati secondo la musicalità del dire ciancianese, conferisce al verso la pienezza dei sentimenti e ne accresce la tonalità espressiva. Non è difficile intuire che il linguaggio del Nostro si fa oggi sempre più raro e minaccia di scomparire del tutto.
   E’ un patrimonio che va in rovina.
   Proprio per questo grava sugli studiosi la responsabilità e il compito di ricostruire attraverso la presente produzione, i tratti, il significato ed il valore del dialetto ciancianese e congelarlo come reperto antico.
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   La presente pubblicazione raccoglie poesie composte in tempi diversi, ma ordinate da mano postuma, secondo una successione di temi che orientano l’Autore, ora al futuro, ora al passato.
   “Tra mia e tia” ne segna il punto divisorio.
   E cosa di buono può promettere il futuro a chi ha superato da qualche decennio il mezzo secolo di vita? E cosa di buono può offrirgli il presente?
   Con un processo di transfert ben riuscito, Giacinto Schembri attribuisce ei pensieri e i sentimenti propri ai personaggi delle sue composizioni. Che perciò stesso risultano autobiografiche.
   Tocca nel segno e colpisce “Lamentu d’un vecchiu” ove emerge il senso desolante dell’abbandono e della solitudine, espresso con toni di malcelata rassegnazione.
   E ritorna lo stesso tema desolante in “’Na vecchiaredda” ove si ricrea un clima di separatezza e di solitudine, gravato da fatalismo che impone alla vecchietta rassegnazione. Ma non rassegnato né silenzioso rimane lo spettatore-poeta che sottolinea l’ingiusta ingratitudine dei figli, come causa del presente dolore: “Puru li figli so’ l’abbannunaru / chiddi ca nutricà cu lu so’ pettu / chinu di latti e di maternu amuri”.  E’ una considerazione gridata e sconsolante che esprime compiutamente l’amarezza della vita al tramonto. E quest’amarezza trova la sua forma poetica in molte altre composizioni della Prte Prima: “Urfaneddu”, “Celu aggrunnatu”, “Maluttempu”, “Jnnaru”, così per citarne alcune, quelle che colpiscono per la sofferenza implicata nei fatti e per l’impressività del dire.
   Nella Seconda Parte, il contenuto, il tono e lo stile cambiano decisamente. E’ che l’Autore rinnova, nel ricordo, le energie e con esse l’entusiasmo, mentre rivive momenti estasiati della giovinezza e dell’amore. Anche qui, però, lo scenario è lo stesso: la natura colta nei momenti attivi e produttivi – “Sittemmiru”; anche qui prevalgono la semplicità dei pensieri e la genuinità dei sentimenti –“Notti agustina”; anche qui emerge il temperamento, stavolta crudo, della donna di pietra – “Bedda e latra”. Diversa, invece, è la maniera di porsi di fronte a questa realtà: il Nostro vive i momenti del suo passato con energie rinnovate e speranze forti.
   Ne fa testimonianza e fede la brevee mirabile composizione “’Mprimuaratu”, che appare ed è una gemma preziosa, frutto di virtù poetica e di tecnica raffinata e compiuta. (Antonio Palermo)

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Da “Tampasiannu … tampasiannu…”

        ‘Mprimuratu

   Curru ‘mprimuratu
 E vegnu atia,
amuri, ca si misa all’allammicu
darrè
la to’ finestra a sfirlazzedda.
Si lu to’ cori sbatti
E si custerna,
pensa lu me’
p’ogni minutu
ca mi si luntana.

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