Una parte notevole dell’attività di Eugenio Giannone quale poeta, narratore, saggista e docente (direi meglio: di educatore) è legata al tema della zolfara siciliana, a rievocarne la civiltà aspra e la cultura, a recuperare la memoria delle lotte sostenute dai minatori della Valle del Platani per cambiare le loro disumane condizioni di lavoro e di esistenza. Alla “civiltà dello zolfo”, se così si può dire, si coniuga buona parte della letteratura siciliana del Novecento, e – volendo andare più indietro – vorrei ricordare le Memorie sugli zolfi siciliani di Michele Amari, ma siamo negli anni Trenta dell’800.
Invece non si può tacere – quando il tema è questo – delle pagine di Napoleone Colajanni e di J. White Mario, del Pitrè in Usi e costumi del popolo siciliano (1887) e ancora della Zolfara di G. Giusti Sino poli (1986). E non a caso Vincenzo Consolo ha parlato giustamente di una “letteratura dello zolfo” (vedasi la su Prefazione a ‘Nfernu veru di Aurelio Grimaldi del 1986); e quindi non si può tacere di Alessio Di Giovanni, di Pirandello, di Rosso di san Secondo fino a Leonardo Sciascia, a Mario Farinella e così via. Al tema forte della zolfara si rifà – ripeto – Eugenio Giannone, della cui corposa bibliografia segnalo almeno due titoli: Zolfara, inferno dei vivi (Palermo 1997) e La zolfara e Alessio Di Giovanni (Agrigento, 2001), prima di trattare più direttamente di una sua recentissima monografia scritta insieme alla figlia Monica, qui al suo battesimo letterario. Si tratta del volume Non si passa. L’occupazione delle miniere del 1953. Notizie e testimonianze, pubblicato nel novembre del 2003 e presentato il mese successivo. L’opera esce come edizione della Camera del Lavoro di Cianciana, congiuntamente alla CGIL di Agrigento e regionale. I due autori, Monica ed Eugenio Giannone, aprono il libro con un capitolo introduttivo intitolato “la Sicilia e lo zolfo”. In esso – al di là di una panoramica storica sotto il profilo economico, sociale e della legislazione sulle miniere, condotto con estremo rigore di ricerca e di documentazione, il filo dell’indagine conferma che “quella della zolfara è una storia triste di miserie, di sfruttamento, di sofferenze, di morte, di abbrutimento, di negazione della dignità umana, anche degli stessi esercenti che apparivano strozzini agli occhi dei minatori”. E ricorre nel testo un interessante riferimento letterario tratto dalla novella Il Fumo di L. Pirandello. Dopo di che l’attenzione dei Giannone si focalizza (è il motivo basilare del libro) sulla reazione dei lavoratori e, quindi, sulle lotte dei minatori di Cianciana, che sfociarono in un’ondata travolgente di scioperi che nel 1953 infiammarono quelle contrade. Ma bisogna saper tenere in giusto conto il quadro storico che Eugenio Giannone aveva già prospettato nel su precedente saggio Il Fascio dei Lavoratori di Cianciana: 1893-94 (Cianciana, 1997). La storia di quelle lotte sostenute nel 1953 dai 421 zolfatai ciancianesi è narrata nel libro con grande efficacia narrativa, con diligenza storiografica, con penna appassionata e solidale, ma pure con il supporto insostituibile e importante di un’ampia documentazione di dati, di reperti delle cronache del tempo, di fotografie anch’esse vigorosamente rappresentative che sono un vero e proprio archivio della memoria. Di grande interesse risultano pure le interviste rilasciate da alcuni dei protagonisti di quella stagione lontana ormai mezzo secolo, nonché un lungo componimento poetico in dialetto di Giovanni Montalbano su la chiusura di li surfari, dai toni di drammatico realismo innestati su di un modello letterario indubbiamente popolare. Ma potrei ricordare i versi di altri poeti popolari di quelle terre amare, non meno forti e dolenti, e basti per tutti il nome di Giuseppe Pulizzi nel volume La Primavera di me nannu del 1993, che ho avuto la ventura di prefazionare. I nostri due Giannone affrontano la parte conclusiva del loro volume non riuscendo ad evitare una venatura di malinconia in penombra. La si coglie, tra l’altro, in queste parole: “Di tutti quei minatori in paese non rimase quasi nessuno, preferendo i più emigrare in Francia, in Belgio, in Germania,Italia settentrionale, alla ricerca di migliori condizioni di vita e di lavoro”. Ma queste parole aprono una finestra su un’altra storia: la storia del grande “cammino della speranza” che per molti siciliani è stato un itinerario del dolore. Dove Monica ed Eugenio Giannone chiudono il loro discorso, che è storiografico ma anche umano, vengono alla memoria le pagine di un altro volume, Tutti dicono Germania Germania, le cronache sacrificali dell’emigrazione siciliana degli anni Cinquanta che Stefano Vilando pubblicò con la Garzanti circa trent’anni fa, egli, poeta originario di Delia, figlio anch’egli di quella cultura delle zolfare che ha radici profonde nelle terre del Nisseno.
Salvatore Di Marco