Breve profilo di A. Di Giovanni

Eugenio Giannone(Cianciana, 1872 – Palermo,1946)
Alessio Di Giovanni è uno dei più grandi poeti dialettali di Sicilia. Luigi Russo lo definì il più grande cantore degli umili d’Italia dopo il Manzoni; Federico Mistral, premio Nobel francese per la letteratura nel 1904, apprese il dialetto siciliano per leggerlo in versione originale, mentre Giovanni Verga ebbe a definire l’arte digiovannea “viva e sincera riproduzione della vita”.
Il poeta ciancianese, che s’era assunto il compito di rinnovare la lingua e la poesia siciliana liberandole dalle svenevolezze dell’Arcadia, cantò le voci del feudo, cui volle aggiungere un altro tema, quello della zolfara, che avrebbe riscosso un notevole interesse da parte di autori del calibro di L. Pirandello, T. Aniante, G. Giusti-Sinopoli, P. M. Rosso di San Secondo, L. Sciascia, che affermò che senza l’avventura dello zolfo in Sicilia non ci sarebbe stata l’avventura dello scrivere.
Di Giovanni lo fece con una potenza descrittiva che ha pochi eguali nella nostra storia letteraria, anche nazionale. Si vedano, ad esempio, i sonetti della zolfara, così asciutti, scultorei, drammatici nella loro essenzialità da trasformarci in spettatori dai semplici lettori che siamo. Tale facoltà pittorica è uno dei tratti salienti dell’autore ciancianese, che aveva esordito proprio come critico d’arte, per cui tutta la sua produzione poetica può essere considerata un grande affresco della vita degli umili che popolavano il latifondo e consumavano la loro esistenza alla luce di un’acetilene, in zolfara.

A. Di Giovanni, oltre che poeta e critico d’arte, fu saggista, folklorista, drammaturgo e romanziere; anzi è l’unico romanziere ad avere scritto in siciliano.  La prima del suo dramma in tre atti Scunciuru avvenne nel 1908 al Broadway Theatre di N. York, ad opera della compagnia di Mimì Aguglia e suscitò grande interesse del pubblico e della critica. La sua produzione si muove lungo alcune direttrici sulle quali, per motivi di spazio, non possiamo soffermarci: Verismo, Decadentismo, Francescanesimo e Felibrismo.

Senza il movimento felibrista, secondo alcuni studiosi, non ci sarebbe stato il DG che conosciamo. Nulla di più inesatto. Dal movimento culturale occitanico Alessio Di Giovanni non ebbe nulla, mentre gli diede davvero tanto. D’altra parte, quando il maestro del felibrismo, F. Mistral, lo nominò socio del sodalizio, il nostro giovane autore aveva composto  la maggior parte delle sue opere. Se felibrismo significa attaccamento alle radici, amore per il luogo e la lingua natia, vivere con il popolo, alla cultura popolare attingere per le proprie composizioni, pur restando poeta culto, ADG fu felibrista e tale sarebbe stato anche senza il movimento culturale transalpino.

 Il Francescanesimo discende dall’educazione familiare, è connaturato al suo amore viscerale per tutte le cose del creato, alla sua ingenuità di poeta  e alla devozione verso San Francesco, nel quale il vate ciancianese vede l’alter Christus, che avrebbe portato ad una palingenesi dell’umanità, istaurando sulla terra la città francescana dell’amore universale nella quale si sarebbero stemperate  tutte le contraddizioni del suo tempo.  

Di Giovanni e il Decadentismo: ogni uomo è figlio del suo tempo. Il DG ne era consapevole e non è innaturale che, anche a livello inconscio, abbia subito l’influsso di quel movimento. Si leggano, a riprova, alcune sue composizioni poetiche e il romanzo intitolato L’uva di Sant’Antonio.   Circa il Verismo non possiamo che affermare che il di Giovanni fu essenzialmente un realista, che del Verismo accetta il canone dell’osservazione diretta, l’oggettività della riproduzione delle vicende narrate.

Ciò non significa che egli, come il Verga, resti impassibile dinanzi al dipanarsi delle vicende o ai drammi delle sue creature, perché mentre nello scrittore catanese i vinti sembrano condannati ab aeterno, nelle pagine del Nostro per essi c’è sempre una possibilità di riscatto e in fondo al tunnel s’intravede una luce foriera, seppure fioca,  di un avvenire migliore, dove sia preservata la dignità di ogni uomo, nostro fratello in Cristo e San Francesco.  

Tra le Opere: Voci del feudo, Palermo, 1938; A lu passu di Giurgenti, Catania, 1906; Cristu, ode siciliana, 1905; Lu puvureddu amurusu, Palermo, 1906; Scungiuru, Palermo, 1908, Gabrieli lu carusu, Palermo,1910; Mora! Mora! (pubblicato, assieme ai due precedenti drammi, nel volume Teatro siciliano, Catania,1938); La racina di Sant’Antoni (L’uva di Sant’Antonio), Catania, 1938; Lu saracinu, Palermo, 1980 (postumo).   

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