Alessio Di Giovanni, Za Francischedda,
Biblioteca comunale – Cianciana,2009
di Eugenio Giannone
Il passaggio della Sicilia dai Borboni ai Savoia e, quindi, anche l’impresa dei Mille, al di là della memorialistica garibaldina (Abba, Bandi, Mario, Barrili, Capuzzi, Nievo), ha attratto in maniera quasi morbosa parecchi scrittori siciliani di chiara fama, che ne hanno sottolineato, con sensibilità e umori diversi, la portata storica e l’incidenza socio- economico-culturale;e mi riferisco a scrittori del calibro di Giovanni Verga, Federico De Roberto, Luigi Pirandello, G. Tomasi di Lampedusa.
La spedizione garibaldina, con le speranze d’un rivolgimento sociale, incendiò la fantasia degli isolani e di alcuni scrittori autenticamente popolari quali il Li Vigni e il Pappalardo, fino a lasciare traccia di sé nei canti popolari.
Essa non poteva lasciare indifferente il nostro Alessio Di Giovanni che ad un episodio del 1860 s’ispirò per la composizione di un poemetto.
Diciamolo francamente: i Mille garibaldini ben poco avrebbero potuto senza la complicità della marina inglese, senza l’aiuto della massoneria (che nello specifico qualcuno chiama mafia) e senza il coinvolgimento entusiastico di migliaia di picciotti siciliani, che s’illusero che alla rivoluzione politica sarebbe seguita quella sociale.
Quanto può un ideale! Quanti giovani diedero la vita per l’Unità d’Italia e quanti si sacrificarono sognando una maggiore giustizia sociale!
Ma fu un terribile disinganno. Quegli ideali vennero sacrificati alla realpolitik, ai gattopardi subentrarono le iene e Pirandello poteva affermare che, 30 anno dopo, da Roma sulla Sicilia pioveva fango!
Cos’era cambiato per i Siciliani? Per chi e cosa s’era sacrificata la Za Francischedda,per cosa era stato trucidato Carlo Mosto? Da cosa s’erano lasciati fortemente sedurre molti frati e preti?
Diciamo pure francamente che la colpa non fu solo dei continentali.
I Piemontesi non conoscevano le reali condizioni della Sicilia, i nostri ascari sì e fecero poco o nulla per lenire i disagi dei conterranei la cui condizione s’incancreniva sempre più ed è finita sui libri di storia a segnare alcuni capitoli dell’annosa questione meridionale.
Ma noi siamo Italiani, italiani di Sicilia e crediamo ancora in quegli ideali; crediamo nell’unità e indivisibilità della Patria e che gli Italiani e i Siciliani meritino, meritiamo, governanti migliori di quanti ci hanno amministrato per lungo tempo.
Innamorato della patria era anche il Di Giovanni: della sua lingua – egli che scrisse quasi esclusivamente in dialetto -, della sua storia, del suo folklore, dei suoi miti, dei suoi eroi vecchi e nuovi, noti o sconosciuti, come Francesca Pitringa, l’eroina cui è dedicato il poemetto che presentiamo questa sera.
NOTA introduttiva al libro. Le vicende che portarono all’Unificazione nazionale attrassero l’interesse e la curiosità di Alessio Di Giovanni, che, innamorato della Patria e della sua lingua – egli che scrisse quasi esclusivamente in dialetto – ad esse tornò più volte rimarcando l’eroismo e il patriottismo di frati e preti che all’ideale di libertà e patria sacrificarono se stessi. Eloquenti in tal senso il dramma L’ultimi siciliani[1] e il saggio Sacerdoti e francescani di Sicilia nell’epopea garibaldina del 1860[2].
Cinquant’anni dopo l’impresa dei Mille, ispirato forse dalla figura femminile di un quadro del pittore Luigi Di Giovanni – al quale aveva dedicato nel 1896 una sezione del Maju sicilianu – compose in endecasillabi sciolti il poemetto Za Francischedda, nel quale fa rivivere l’eroica figura di Francesca Pitringa, intesa M’annoia (mi secca, mi annoia), uccisa il 25 maggio 1860 dai mercenari borbonici ad Altofonte, allora Parcu, perché non aveva voluto rivelare d’aver nascosto in casa il garibaldino Carlo Mosto, ferito durante gli scontri dei giorni 22-24.
Nel poemetto, oltre a ribadire le indubbie doti pittoriche, per cui gli bastano poche pennellate per descrivere il paesaggio e “Palermu… ’n menzu lu virdi di centu jardini”, il Di Giovanni rivela grande conoscenza dei luoghi descritti minuziosamente, della psiche umana, nel caso specifico femminile, e naturalmente della lingua siciliana che dalla sua penna trae vibrazioni come un’arcana e delicata melodia dalle note d’uno strumento musicale.
Ella, come tanti isolani, rimane folgorata dal condottiero in camicia rossa, che sembra annunciare un’epoca nuova e che “pareva lu Signuri, / misiricurdiusu comu ad iddu, / ca sinteva piatà di cu‘ suffriva …// senza superbia cu li puvireddi!”; za Francischedda, che non aveva conosciuto le gioie dell’amore ed “era matri … senza c‘avissi figghi”, accoglie in casa il ventenne garibaldino, gli coglie “affizioni” e per lui, gridando “primu d’assaccari / cu ’na vuci di mamma: -figghiu miu!”, muore.
Mel 1910 il comune di Altofonte volle ricordare con una lapide il sacrificio del Mosto e di quanti in quelle gloriose giornate persero la vita. Fu in quell’occasione che il poeta ciancianese compose l’‘‘inspirato e vibrante” poemetto “dinanzi ad una eletta schiera di dame e di signori e al cospetto di un numeroso popolo”[3], che lesse il 22 maggio.
Za Francischedda fu ripubblicato nel 1930 sulla Rivista Italiana di Letteratura Dialettale ed è, come sottolinea Salvatore Di Marco[4], “immeritatamente trascurato dalla critica digiovanniana anche più recente” e “resta, al di là di qualche cedimento retorico e qualche suono enfatico, un documento degno del miglior dettato del nostro poeta”.
[1] Alessio Di Giovanni, Teatro siciliano, Catania 1932. Il dramma, rappresentato nel 1915, precedentemente era stato intitolato Mora mora! e per esso l’Autore provava “una particolare tenerezza”
[2] In “La Sicilia nel Risorgimento italiano”, Palermo 1932.
[3] L’Ora del 3 giugno 1910, che pubblicò anche il testo.
[4] Salvatore Di Marco, Prefazione a Lu seguitu di la storia di Vittorio Riera, Palermo 2005.