Giovanni D’Angelo
C’era ’na vota.1
Ediz. Il sole di tutti, Bergamo, 2007
Prefazione di Eugenio Giannone
Un viaggio a ritroso nel tempo a ricostruire, sul filo della memoria, gli anni spensierati dell’infanzia e della prima giovinezza che, seppure travagliati e non immuni da privazioni e stenti, erano fondati su saldi rapporti interpersonali, animati da sani principi, e
caratterizzati da una serenità e felicità che molti oggi cercano, “in questi tempi d’arroganza, d’invidia, dell’apparire ad ogni costo”, senza riuscire a trovarle forse”per disimpegno, trascuratezza, paura di sbagliare”.
“C’era una volta” è un archivio della memoria, che non vuole imporre modelli di vita ormai improponibili ma invitare a riscoprire determinati valori, magari datati, eppure insostituibili anche in questa società dell’usa e getta, che pare refrattaria a ogni tipo di sollecitazione, onnivora, che tritura ogni cosa, tutte le mode, senza pensare a quello che potrà essere domani.
La colpa non è dei giovani ma nostra – e questo è il grande rammarico di Giovanni _ ché non abbiamo saputo trasmettere i valori cui da piccoli siamo stati informati, abdicando al ruolo di genitori-educatori, dimenticando la lezione dei padri. Che i giovani sappiano, che i meno giovani rammentino, prima a se stessi e poi agli altri, per non disperdere iol ricco patrimonio della nostra storia sociale, civile e politica, nel quale affondano le nostre radici, la cui conoscenza è indispensabile per capire il presente e costruire consapevolmente il futuro, trasmettendoci, da generazione in generazione, il testimone della civiltà.
In questo film, ricco di flashback, riemerge la storia del popolo ciancianese, l’analisi d’uno spaccato d’altri tempi in cui non c’erano cioccolatini, caramelle o giocattoli da offrire ai bambini ma tutto aveva un gusto particolare condito con “odori, sapori, natura e compagnia” perché esisteva ancora l’epopea del vicinato, che si manifestava nei momenti belli e gai dell’esistenza (fidanzamenti, matrimoni, serenate notturne ecc.) e in quelli tristi (i decessi, per esempio), che coinvolgevano parenti, amici e vicini di casa.
Riemergono momenti salienti della vita quotidiana e figure che sembrano uscire da un libro di fiabe, poetiche e drammatiche nella loro consistenza; uomini che svolgevano con umiltà e decoro le loro mansioni perché il pane era “duci” e i bambini aspettavano con la bocca aperta: lo stagnino, il lattaio che con le sue capre o vacche serviva a domicilio i clienti, il conciapelli, il mediatore (sinzali), il conzalemme (conciabrocche), il banditore (vanniaturi), il ciaramiddaru (zampognaro), gli ambulanti (es.. l’arrotino), il cantastorie che intratteneva in piazza con la sua chitarra e il suo telo istoriato. In piazza, sotto la Torre dell’Orologio, dove, prima che albeggiasse, si riunivano operai e braccianti nella speranza di essere scelti per una giornata di lavoro e che dall’imbrunire, o durante le ore delle giornate piovose, affollavano i laboratori artigiani (allora numerosi) di sarti, calzolai, barbieri trascorrendo amenamente il tempo tra frizzi e lazzi, scambiandosi informazioni ed esperienze, commentando l’accaduto, cantando e sparlando di tutto e di più.
L’amarezza per la povertà diffusa, per la sporcizia, per le condizioni igieniche precarie, per i sacrifici atti a far studiare (arrinesciri) un figlio che riscattasse tutta la famiglia, il tenero ricordo di mamme e donne perennemente incinte vengono stemperati dal ricordo della semplicità dei costumi e dell’amicizia disinteressata, che si cementava ogni sera, attorno al braciere, quando qualcuno rievocava le vicende del Conte di Montecristo, dei Beati Paoli, della Bella dei sette veli, affabulando e incantando i fanciulli che cascavano dal sonno; anche dal ricordo della spensieratezza dei giochi ruspanti, dell’ingegnarsi giovanile per procurarsi i soldi per il biglietto del cinematografo, dei rimedi empirici ma efficaci per curare malattie e far rimarginare in fretta le ferite (li merchi) di cui erano ricchi i figli della strada, quali erano tutti i bambini, che trascorrevano il loro tempo negli immondezzai, rincorrendosi, schiamazzando e liberando la loro fantasia. Non tutti potevano farlo: a sette anni molti erano già uomini, abbandonavano le elementari andando a lavorare in campagna, in zolfara o apprendendo un mestiere, che generalmente era quello del padre. Andavano laceri, scalzi, erano denutriti, rachitici e suscitavano una gran pena; tanti motivano in tenera età con dispiacere anche dei maestri che a quei tempi adottavano la didattica della virga. Tempi travagliati, amari, certamente, in cui ogni persona svolgeva un suo ruolo, ogni cosa occupava un posto preciso e le stagioni erano scandite dalla fatica, soprattutto contadina, dalla sacralità del lavoro e dalla santità del focolare con i suoi principi, dai riti religiosi molto partecipati, dalle tradizioni, dalla percezione di tante virtù e dalla saggezza degli anziani.
Beato chi ha un paese da raccontare: il paese è Cianciana, ma potrebbe essere uno qualsiasi del Meridione; un paese che dagli anni del racconto ha più che dimezzato la sua popolazione, falcidiata dall’emigrazione, con i suoi innumerevoli problemi irrisolti, con le sue incombenze, le sue abitudini e tradizioni che, in C’era ’na vota, vengono esposte in un linguaggio infarcito di termini dialettali che non per questo perde incisività, ammaliatore, paranetico, teso alla riproposizione di valori che “è peccato far perdere”.
Per concludere: un’opera che va degnamente a collocarsi accanto a quelle di altri autori ciancianesi di storia e costume, di tradizioni popolari, ambiente ecc, colmando un vuoto e della quale siamo grati all’autore.
Giovanni D’Angelo
C’era ’na vota.2
Ediz. Il sole di tutti, Bergamo 2008
Nota di Eugenio Giannone
Immaginate che una piovosa sera d’inverno vada via, improvvisamente, la corrente elettrica. Non è possibile? Lo è, specialmente nei piccoli centri dell’entroterra siciliano; fortunatamente oggi con scarsissima frequenza, ma una volta, ad ogni starnuto, ad ogni piscio di cane o gallina, alle prime gocce di pioggia… tacte: via la luce!
In quelle lunghe e gelide notti ci si riuniva attorno al braciere ad ascoltare “li cunti antichi”, con la presenza del vicinato e alla luce fioca d’una candela, d’un lume o qualche “spicchiu” (orciuolo).
Oggi il braciere, il focolare, è rappresentato dalla Tv, ma senza corrente come si fa? Chiedetelo a Giovanni: ha risolto il problema, per sé, per i nipotini, per chi ha voglia di leggerlo, anche alla chiara luce di un neon.
Attraverso una lunga serie di documentari in bianco e nero, che la sua fervida penna ci regala, fa emergere una serie di figure e situazioni d’altri tempi, d’un passato ancora prossimo, che si materializzano narrando la storia della comunità ciancianese fatta di mestieranti, di abitudini, di sentimenti genuini, di religiosità e folklore, di motteggi e ingegnosità, degli appuntamenti della vita, volti a favorire un rapporto nuovo e diverso – contemporaneamente antico – con la natura e un più meditato modo di confrontarsi tra individui per riappropriarci di valori certi, tornare al dialogo tra componenti dello stesso nucleo familiare.
Proprio per questo dovrebbe andare via la corrente elettrica e impedire che quell’orribile scatola magica, con i suoi reality e la sua spazzatura, infesti le nostre case e le nostre menti, catturando l’attenzione e facendoci dimenticare quanti e quanto ci circondano e vivere in un mondo virtuale che continuamente ci disillude.
Ritrovare antichi sapori si può. Contro l’anestesia del cervello: dialogo e sensibilizzazione.
C’era ‘na vota.2 di Giovanni D’Angelo si colloca sulla scia del precedente volume, ripercorrendone lo stile aggraziato e il linguaggio, sempre parlato, fluido, accattivante, che invita alla meditazione e all’ascolto di questo autentico cantastorie.